La Stampa, 21 giugno 2020
Ritratto di Paolo e Vittorio Taviani
Devo confessarlo subito: Paolo e Vittorio Taviani rappresentano una parte fondamentale della mia vita e della mia carriera, e cercherò quindi di realizzare un ritratto tentando di non cedere al sentimentalismo. Il nostro rapporto inizia più di cinquant’anni fa, quando erano dei giovani registi che avevano debuttato con film importanti ed estremamente impegnati quali Un uomo da bruciare e I sovversivi. Mio padre, avvocato, aveva una grande passione per il cinema e stimava molto questi due giovani cineasti di talento. Paolo e Vittorio venivano spesso a cena da noi e si intrattenevano fino a tardi a discutere di temi che mi sembravano enormi, e forse lo erano, come ad esempio cambiare il mondo con l’arte o la politica, o non cambiarlo affatto, ma almeno illudersi di farlo.
Non avevo ancora dieci anni, e non capivo bene i temi che trattavano, tuttavia rimanevo affascinato da queste lunghissime discussioni dalle quali carpivo alcune espressioni misteriose: «il potere dell’immagine», «gli inevitabili compromessi della politica», «la necessità vitale di avere degli ideali». Ero affascinato in particolare dal fatto che potesse esserci una sincera amicizia tra un cattolico come mio padre e due uomini di cultura marxista quali Paolo e Vittorio. Ovviamente quest’ultima elaborazione è successiva all’epoca di quegli incontri, ma anche allora sentivo che c’era un’amicizia autentica che superava punti di vista differenti, perché alla radice di queste posizioni c’erano valori condivisi.
Palma d’oro e budget risicati
Quando mio padre morì improvvisamente, Paolo e Vittorio e le mogli Lina e Carla rimasero molto vicini alla nostra famiglia. E nel momento in cui comunicai a mia madre che ero appassionato di cinema e non avevo intenzione di diventare un avvocato, lei mi suggerì di andarli a trovare. Mi accolsero con affetto paterno, e il risultato di questo primo colloquio fece sì che subito dopo l’esame di maturità diventai fotografo di scena della Notte di San Lorenzo. In realtà io avrei voluto fare l’assistente, ma la produzione non aveva un budget sufficiente per potersi permettere qualcuno in quel ruolo: Paolo e Vittorio volevano comunque aiutarmi e mi chiesero se fossi in grado di fare il fotografo. Dissi di sì, ovviamente, e inventai anche un’inesistente esperienza nel settore. Capirono immediatamente che mentivo, tuttavia si fecero garanti della mia qualità con il produttore Giuliani De Negri, e nel giro di poche settimane mi trovai sul set, assolutamente inadeguato.
Pochi anni prima Paolo e Vittorio avevano vinto la Palma d’Oro a Cannes con Padre padrone, tuttavia i loro budget continuavano a essere molto risicati. Di quelle settimane vissute nella campagna toscana ricordo l’emozione di essere testimone della nascita di una grande opera d’arte, e la sensazione che il film avesse una dimensione assolutamente familiare, non solo per la vicenda raccontata, autenticamente vissuta da Paolo e Vittorio, ma perché gran parte dei principali collaboratori erano legati da vincoli familiari: la costumista era Lina, moglie di Paolo, e la segretaria di edizione Carla, moglie di Vittorio. Le scenografie erano opera di Gianni Sbarra, cognato dei registi, e tra le comparse reclutate per le scene di massa conobbi la generazione giovane dei Taviani, capitanata da Ermanno, figlio di Paolo.
Fellini e "la verità"
Quasi immediatamente i due registi ci tennero a impostare un rapporto personale: non ero più il figlio di una coppia di amici ma un giovane che voleva imparare il cinema. In breve tempo, la situazione si ribaltò: ero io a essere invitato alle loro cene, dove conobbi gli altri membri della famiglia, Giuliano e Francesca, musicisti, Giovanna, regista di documentari e Valentina, costumista. In quelle serate ho assistito a discussioni sui grandi amori di Paolo e Vittorio, a cominciare dalla letteratura russa: «è più grande Tolstoj o Dostoevskij»? «Verdi o Rossini»? «Mozart o Beethoven?» «Rossellini o De Sica?». Prevalevano in genere i primi, di queste coppie, ma si trattava solo della conclusione di dibattiti accesi, in cui ognuno a tavola citava un’opera, una frase, a volte persino un passaggio musicale.
Per me è stata una grande avventura culturale, umana, e oserei dire familiare, dove, ancora una volta inadeguato, cercavo di dire la mia. Ma l’elemento più entusiasmante era il principio che sottostava a questi dibattiti a volte ripetuti e sempre un po’ scherzosi: l’importanza non solo estetica, ma soprattutto etica, di quello che si può fare con l’arte, e l’orgoglio di far parte di una grande tradizione culturale. Il tutto condito da aneddoti che spesso stimolavo in prima persona su personaggi ai miei occhi mitici, quali Fellini e Visconti. Una volta mi raccontarono di aver visto quest’ultimo che provava una scena, ed era disperato perché non riusciva a trovare la verità di quello che stava rappresentando. «La verità», ripetevano, alternandosi le parti, e io mi sentivo lievemente in colpa, come se cercassi invece qualcos’altro.
Ovviamente, quando si parlava di politica e religione non sono mancati i contrasti, che a volte si sono estesi anche al cinema, ma è stata la loro grande lezione sul senso etico dell’arte che mi ha insegnato a cercare il cuore delle cose. Rimasi estremamente colpito da una battuta di Il sole anche di notte, tratto da Padre Sergij di Tolstoj, nel quale un personaggio dice: «Chi cerca Dio spesso non lo trova, chi cerca la verità trova anche Dio». E mi ha colpito ancora di più l’ammirazione, e oserei dire l’affetto, che ha dimostrato Paolo recentemente per papa Francesco.
L’ateo insegna al credente
Quando venni a sapere che Vittorio era gravemente malato, lo chiamai al telefono: parlava con un filo di voce, ma rimasi colpito dalla serenità con cui stava affrontando l’ultimo viaggio, anche quello era un ennesimo insegnamento, ed era l’ateo a darlo al credente. Ancora adesso mi sembra inconcepibile l’idea che si possa essere separato da Paolo, per me hanno sempre rappresentato un unicum, anche se avevano caratteri spiccatamente diversi. È quello che mi disse Martin Scorsese, dopo che ricevette da Paolo il premio alla carriera alla Festa del Cinema. Si conoscevano da tantissimi anni, quando Scorsese era ancora un giovane regista promettente. «Io sono convinto che Paolo porti dentro di sé un dolore molto maggiore di quello che voglia fare apparire», mi disse, «e ancora oggi ho pudore a parlargli di Vittorio». Poi, prima di ripartire mi spiegò: «È grazie ad artisti come Paolo e Vittorio che ho imparato che è importante sapere come fare il cinema, ma è molto più importante sapere il perché».