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 2020  giugno 20 Sabato calendario

Orsi & tori

Unanimità è democrazia? Quando fosse spontanea sì, ma assolutamente no quando è obbligatoria per decidere. Una semplice equazione indica, quindi, che l’Unione europea per larga parte delle sue istituzioni non è democratica. E chi si ostina, come la Germania e gli altri piccoli Paesi del Nord, a sostenere che vale l’unanimità, non è democratico nel profondo. Io, tuttavia, penso che la Germania sia democratica anche se nel nome (Repubblica federale tedesca) non compare l’aggettivo democratica. Ma tutti sappiamo perché: la Germania dell’Est, prima dell’unificazione, con un regime totalitario come quello comunista, si chiamava ostentatamente Repubblica democratica tedesca. Il fatto pericoloso è che, vieppiù, non Angela Merkel personalmente, ma uomini vicini alla Cancelliera come il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, manifestano pensieri antidemocratici per l’Europa unita. Come l’affermazione recentissima che lui, capo della più importante Banca centrale europea, per anni esponente del partito della Merkel (Unione cristiano-democratica di Germania, Cdu) ubbidirà soltanto alla sentenza di Karlsruhe, la Corte costituzionale di Germania. La quale Corte ha sentenziato che entro tre mesi, dal 5 maggio scorso, la Bce deve dare chiarimenti sul suo programma di acquisto di titoli degli Stati e che, secondo i giudici supremi tedeschi, l’acquisto deve essere proporzionale alla dimensione dei singoli Stati. Come dire che la Bce, che ha cancellato qualsiasi proporzionalità altrimenti l’Italia sarebbe già in difficoltà, dovrebbe interrompere l’acquisto di Btp e di titoli di altri Stati europei in maggiore difficoltà della Germania, che poi in difficoltà non è.La notizia della presa di posizione di Weidmann è stata pubblicata da Die Welt, uno dei più autorevoli giornali tedeschi, ma, come ha scritto Marcello Bussi il 17 scorso, «“o i mercati non se ne sono accorti, oppure la Bundesbank non conta più niente». In realtà Weidmann ha fatto la furbata di aggiungere che comunque una soluzione andrà trovata. Proprio per un fattore che ha diretta attinenza con la unanimità e quindi la democrazia. Infatti, in Bce, sicuramente la più importante istituzione europea, si decide non all’unanimità ma a maggioranza. E Weidmann ha già assaporato l’amaro di essere minoranza, quando nel luglio del 2012, per la prima volta nella storia della Banca centrale europea, il presidente Mario Draghi lo rese minoranza e con quel voto fu dato avvio all’acquisto di titoli di Stato e poi anche di bond di società private, ed evitando così una crisi irreparabile.
Basta questo a capire che in ogni caso i rischi per il debito pubblico italiano continuano a esistere e anzi dopo questa dichiarazione di Weidmann sono aumentati.
Anche per un’altra semplice ragione, che come notizia è sfuggita a tutti i media italiani con l’unica eccezione di ItaliaOggi per l’articolo, sull’edizione di mercoledì 10 scorso, scritto da Tino Oldani, che legge il tedesco. Oldani riferisce che il giornale tedesco più autorevole nel campo politico economico, la Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung), che in Italia ha come corrispondente il bravissimo Tobias Piller, ha interrogato alcuni dei più prestigiosi economisti tedeschi sul tema di come aiutare l’Italia. E due su tre hanno concluso che entro due anni l’Italia dovrà ristrutturare il debito.
«È inaccettabile che i creditori italiani e stranieri in possesso di titoli italiani vengano costantemente salvati dai contribuenti europei, invece di partecipare essi stessi alle perdite», ha sentenziato Hans-Werner Sinn, ex presidente dell’Istituto di ricerche economiche Ifo di Monaco di Baviera. E ha aggiunto: «Dalla fine della Seconda guerra mondiale ci sono state 180 ristrutturazioni di debiti pubblici. E il mondo non è ancora finito. Temo che presto dovremmo farne uso anche per l’Italia, perché i pacchetti di salvataggio non durano in eterno».
Dello stesso avviso è Friedrich Heinemann dell’Istituto Zew di Mannheim: «Evitare il taglio del debito pubblico non sarà possibile. Il debito è troppo alto e l’Italia non potrà uscirne...».
Soltanto un’economista dei tre, uno dei cinque consiglieri della Merkel, si è schierato contro la ristrutturazione del debito italiano. Ha affermato Lars Feld: «L’Italia ha una consistenza diversa dalla Grecia. Se il governo italiano affrontasse finalmente con determinazione l’attuazione delle riforme, si libererebbero grandi potenzialità di crescita economica... E poi la ristrutturazione del debito provocherebbe una crisi bancaria in Italia, che si estenderebbe ad altri Paesi europei».
Avete letto bene: in Germania si parla apertamente, escluso il consigliere della Merkel, che l’Italia ha due anni di tempo per non dover ristrutturare il debito, cioè tagliare il valore dei titoli di Stato in circolazione.
Proprio per la rilevanza di questo dibattito, ha scritto sul tema anche Von Gerald Braumberger, direttore ed editore della Faz. Un giudizio sostanzialmente equilibrato, il suo, che si sintetizza così: «... Se si dice che qualche Paese comunque non potrebbe ripagare i soldi eventualmente distribuiti da Bruxelles, la soluzione conseguente diventerebbe la ristrutturazione del debito, che è un progetto complicato, non senza rischi. Tuttavia, potrebbe avere un effetto liberatorio per questi Paesi e togliere peso a Bruxelles e alla Bce». Quasi diabolico, ma razionale. E conclude: «Per risolvere i propri problemi comuni, l’Europa avrebbe bisogno di più coraggio anziché di sempre più soldi». Ok per il coraggio, ma i soldi sono indispensabili e chi può fabbricarli? Dopo la guerra c’è stato il piano Marshall e dei miliardi di dollari distribuiti ne ha goduto in primo luogo la Germania, alla quale è stato subito abbonato il 50% del debito di guerra. Ora i soldi da dove potrebbero arrivare, Signori giudici della Karlsruhe, se non dalla Bce?
Ma è non giusto, è più che giusto, che l’Italia, per parlare solo del Paese dove viviamo e che il più indebitato d’Europa, abbia un piano serio per ridurre il debito, che le conseguenze economiche del Covid-19 spingeranno fin oltre il 150% del pil. Ma oltre che giusto è anche indispensabile per evitare che le opinioni degli economisti, i quali rappresentano la pancia della Germania, e con essi l’opinione dello stesso presidente della Bundesbank, prevalgano e facciano vincere la loro battaglia per far pagare la ristrutturazione agli italiani e agli stranieri che hanno comprato titoli italiani.
I termini del problema sono questi:
1) per cercare di limitare i danni economici del virus, perché l’Italia non sprofondi, c’è bisogno di capitali enormi che lo stato italiano non ha. Mario Draghi, quando si era nella piena esplosione del contagio, ma ben lontani dalla situazione economica attuale, aveva dato un consiglio perentorio: emettete titoli in quantità enorme; li sottoscriverà sicuramente la Bce, a cui Draghi durante la sua presidenza ha imposto il ruolo di ultima istanza di tutte le banche centrali; fatelo subito perché sarà considerato debito di guerra con scadenze lunghe se non lunghissime; i titoli rimarranno alla Bce e al momento di rimborsarli magari l’Italia sarà in condizione di farlo oppure saranno trattati come il debito di guerra della Germania, che la Repubblica federale non ha restituito.
Il governo non ha seguito il consiglio di Draghi e ora che il virus è stato contenuto, non ci sono più i termini per considerare le emissioni come debito di guerra. Basta pensare ai fucili puntati della Corte tedesca e di Weidmann. Occorre quindi che l’Italia si arrangi da sola, a parte quanto arriverà e come arriverà da Bruxelles. Ma per riuscire occorre fare un’operazione doppia e sinergica: da una parte occorre raccogliere capitali senza che il debito cresca e contemporaneamente si deve avere il coraggio di ridurre il debito vendendo beni dello Stato;
2) la doppia manovra non è impossibile ed è la sola che può salvare l’economia e quindi l’Italia. Il modo per raccogliere capitali senza far crescere il debito, il presidente della Consob, Paolo Savona, dopo aver informato le autorità, lo ha presentato ufficialmente nella sua relazione annuale: emettere titoli irredimibili o perenni che si vogliano chiamare. Sono titoli che possono durare anche 80-100 anni e per questo non possono essere considerati debito, ma nella loro vita rendono abbastanza da far recuperare anche il capitale investito dai sottoscrittori o da chi li ha acquistati sul mercato secondario. Qualche economista, in tv da Otto e mezzo, li ha definiti titoli di guerra. Sì, in altri Paesi lo sono stati, ma quello italiano a cui si è fatto riferimento a Otto e mezzo è prebellico, del 1935. Per contro, ci sono state e ci sono varie emissioni anche di compagnie d’assicurazioni, per esempio ce n’è stata sul mercato fino a poco tempo fa una di Generali. Per il rendimento troppo alto e quindi per il costo troppo alto che aveva raggiunto per l’emittente, la Compagnia di Trieste lo ha ritirato, rimborsando i detentori che hanno fatto un ottimo affare. Come si capisce dal caso Generali, se chi lo emette negli anni si trova nelle condizioni di poterlo ricomprare può anche rimborsarlo: è un’ opzione che ha. Ma per anni deve solo pagare gli interessi senza che l’emissione sia considerata debito.
Ci sono sottoscrittori ideali per questi titoli: per esempio gli istituti previdenziali, che hanno bisogno di reddito garantito per lungo tempo. Questi titoli in genere vengono quotati e hanno quindi un valore in base a quanto rendono; chi ha bisogno di venderli può farlo sul mercato, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a comprarli, se il rendimento è buono. E se a emetterli in particolare è uno Stato, può associare alla sottoscrizione e alle cedole vantaggi fiscali. Insomma, la proposta del professor Savona è l’unica che consente di raccogliere capitali senza far aumentare il debito. E il presidente della Consob non si stanca mai di dire, come ha fatto nella sua relazione, di ricordare che gli italiani sono i più grandi risparmiatori del mondo assieme ai giapponesi e che il loro risparmio deve essere sempre più connesso al sistema produttivo del Paese.
Per esempio, l’Italia potrebbe emettere titoli irredimibili connessi al finanziamento delle grandi opere, concedendo ai sottoscrittori una compartecipazione ai benefici che le stesse generano. Oppure lo Stato potrebbe usare il ricavato dell’emissione per sottoscrivere direttamente o attraverso sue controllate, come è stato già deciso di fare, minoranze nel capitale di aziende con grandi prospettive di crescita. E far partecipare i sottoscrittori dei titoli irredimibili ai capital gain realizzabili. Basta voler capire e non confondere la proposta Savona, anche per il ruolo che riveste, con proposte dei populisti che quando parlano di titoli di guerra non sanno nemmeno di cosa parlano.
Ma se è possibile finanziarsi con i titoli irredimibili senza far aumentare il debito, lo stesso debito, che era già enorme prima del Covid, va assolutamente ridotto se non abbattuto perché, diversamente, con le profezie degli economisti tedeschi, lo spread salirà sempre di più, fino a far saltare i conti dello Stato. E per frenare o addirittura portarlo al livello dei migliori Paesi europei, occorre dimostrare al mercato che si ha, subito, la capacità e la volontà di tagliare l’enorme debito.
La ricetta è quella del Tagliadebito, di cui i lettori sentono parlare su queste colonne da anni. Lo Stato, lo ripetiamo, deve fare come una qualunque società o famiglia che ha molti debiti, ma anche patrimonio alienabile. E naturalmente non si parla dei grandi monumenti, ma degli immobili che lo Stato ha trasferito agli enti locali e che valgono circa 400 miliardi. La più grande banca italiana, Intesa Sanpaolo, condividendo questo disegno, lo ha perfezionato prevedendo il conferimento di questi immobili a tanti fondi locali, dove inserire in primo luogo gli edifici di quelle città, offrendo quote a italiani (dicasi italiani, persone fisiche o società) che possono pagare le quote con Btp, che poi lo Stato potrà annullare.
Appena sarà diventata operativa l’ops su Ubi, il ceo di Intesa Sanpaolo, che conosce direttamente l’umore degli investitori istituzionali e la loro richiesta di tagliare il debito (a chiederlo non sono solo i tedeschi), ha in programma di rilanciare il piano fondi immobiliari per gli edifici di cui lo Stato si è spogliato, che vanno valorizzati e dei cui frutti devono godere le varie comunità per le quali oggi sono un costo.
Quindi, doppia manovra: ha compreso Signor Presidente del Consiglio? Raccolta senza aumentare il debito e taglio del debito con i fondi immobiliari. Se poi Le facesse piacere, i vari fondi potrebbero essere chiamati tutti Fondi degli Italiani. Non è impossibile. Si fidi, Signor Presidente, di due uomini come Savona e Carlo Messina. Altrimenti, ha letto, nel 2022, la Germania è pronta a far sì che le ristrutturazioni del debito dei Paesi diventino 181.

P.S. La relazione del presidente della Consob è piena di altre ottime analisi e proposte che per fortuna un po’ tutti i giornali hanno riportato correttamente. Ma è da sottolineare la conclusione e la proposta operativa, pertinente al ruolo della Consob, che ha preso a riferimento una bellissima citazione di Carlo Azeglio Ciampi. Nel 1998, colui che partendo da banchiere è stato ministro, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, disse: «Vi è da chiedersi se la sempre più stretta integrazione tra i tre comparti della finanza (attività di credito, di investimento e assicurativa), sotto il profilo sia dei soggetti e dei prodotti, sia delle strategie d’impresa, non renda necessario riassumere in un Testo unico tutta la disciplina dell’intermediazione creditizia, finanziaria e assicurativa».
Dando dimostrazione di come, a proposito della mitica semplificazione, si potrebbe passare dai pronunciamenti generici ai fatti, Savona ha concluso: «Ripropongo questa autorevole riflessione all’attenzione della politica e del mercato...». Si dà il caso che da quando Ciampi lanciò l’idea, la tecnologia e gli operatori hanno già unificato i tre mondi. Quindi un solo Testo unico, invece di tre.