Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2020
Wirecard, la Parmalat bavarese fa crack
he fine ha fatto il miliardo e novecento milioni di euro di liquidità di Wirecard? Sono passati due giorni da quando l’ex gioiellino fintech tedesco ha rinviato l’approvazione del bilancio vista l’impossibilità del revisore Ernst & Young di certificare questi fondi fantasma. Ma la vicenda, invece di chiarirsi, si è complicata ulteriormente secondo un copione che ricorda sempre più la storia di Enron o della Parmalat dell’era Tanzi.
Ieri Marcus Braun, maggiore azionista e ceo per oltre un ventennio della società si è dimesso. In un videomessaggio si è assunto ogni responsabilità per le transazioni operate dall’azienda ma ha anche aleggiato l’ipotesi che Wirecard possa essere stata bersaglio di una colossale frode. Senza tuttavia presentare evidenze a supporto. Da parte loro Bdo Unibank e Bank of Philippine Island, i due istituti in cui avrebbero dovuto essere depositati i fondi fantasma hanno dichiarato che la società non è nemmeno loro cliente. Il numero uno della Bank of Philippine Island ha definito una «patacca»il documento attestante il presunto rapporto con la società sostenendo a sua volta di essere vittima di una frode. Bdo Unibank – stando a quanto riferisce il Financial Times - avrebbe individuato un impiegato del settore marketing coinvolto nella stesura della documentazione falsa.
In Borsa intanto il titolo ha continuato a sprofondare. Ieri le azioni hanno perso un altro 35% aggiornando la perdita nelle ultime due sedute a -74 per cento. Il valore di Borsa della società, che nei tempi migliori è arrivata a valere oltre 23 miliardi di euro, è sprofondato poco sopra i 3 miliardi. Prima dell’annuncio shock sulla liquidità l’azienda ne valeva poco più di 12. E se i fondi hedge che avevano preso posizioni ribassiste sul titolo (oltre il 10% delle azioni risultava oggetto di posizioni “corte”) hanno festeggiato, gli istituzionali “lunghi” si sono leccati le ferite. Dws o Union Investments hanno già annunciato l’intenzione di far causa. Altre partecipazioni rilevanti risultano in carico ai colossi BlackRock e Vanguard. Dopo l’ex numero uno Braun (azionista al 7%) la banca dati S&P Market Intelligence registra poi una partecipazione intorno al 5,41% formalmente in carico a Merrill Lynch Banking Investments che, su incarico di un cliente la cui identità non è nota, risulta aver rilevato questo consistente pacchetto azionario il 9 di giugno. Giusto pochi giorni prima che il titolo collassasse. Tempismo non invidiabile ma d’altra parte fino al giorno prima del collasso in Borsa 10 analisti su 25 tra quelli monitorati da Bloomberg consigliavano di comprare.
Con il rifiuto del revisore dei conti Ernst & Young di certificare i depositi fantasma è slittata la pubblicazione del bilancio 2019 e l’azienda rischia di vedersi ritirare linee di credito per 2 miliardi di euro. In queste ore i vertici della società sono in trattativa con i creditori per tenere in piedi la società. Le banche non sono peraltro gli unici a vantare crediti. Ci sono anche i detentori dei 500 milioni di bond quinquennali emessi dalla società l’anno scorso che ora valgono appena un quarto del loro valore nominale.
Che qualcosa non andasse per il verso giusto nei conti della società di pagamenti digitali lo si sospettava da mesi. A ottobre dello scorso anno il Financial Times ha scritto che la società aveva gonfiato i risultati delle controllate a Dubai e a Dublino sostenendo che l’azienda avesse mentito per oltre un decennio al revisore dei conti (Ernst & Young). Ad aprile Kpmg ha pubblicato un audit in cui ha dichiarato di non poter sostenere che il grosso dei profitti registrati dalla società tra il 2016 e il 2018 fosse genuino. Già prima del crollo di giovedì il titolo risultava in ribasso di circa il 30% rispetto ai livelli di un anno fa.