Tuttolibri, 20 giugno 2020
Intervista a Anne Tyler
«Il cortile dietro casa mia. In questi giorni, visto che circolano meno umani, arrivano molti più animali: soprattutto conigli, ma anche due volpi, una adulta e una che chiamo "l’adolescente". E poi gli scoiattoli che, ho scoperto, giocano intenzionalmente a nascondino. Non ne avevo idea, prima». Anne Tyler vede questo fuori dalla finestra, mentre mi parla da casa sua a Baltimora. La scrittrice, premio Pulitzer nel 1989 per Lezioni di respiro, 23 romanzi pubblicati, si definisce così: «È vero, non sono proprio una socialite». È ironica: per la sua ritrosia a partecipare a eventi pubblici e a concedere interviste di persona, per circa 40 anni è stata paragonata a J.D. Salinger, e c’è stato anche chi l’ha chiamata «la Greta Garbo della letteratura». Poi, nel 2012, qualcosa è cambiato e ora, pur sempre con parsimonia, è diventato più facile entrare in contatto con lei.
Nei suoi libri, pieni di famiglie complicate, parla della gente comune, quelle che incontra quando va a fare la spesa. «Ma sto sempre molto attenta a non usare la vita vera», mi dice. «Certe volte, quando qualcuno mi racconta un suo problema, mi dico: "Cavoli, che peccato non poterlo mettere in un libro"».
Per anni è stata sposata con lo psichiatra iraniano Taghi Mohammad Modarressi, con il quale ha avuto due figlie e che è morto nel 1997.
Dopo romanzi come Ristorante nostalgia (1982), Turista per caso (da cui, nel 1988, è stato tratto un film per il quale Geena Davis ha vinto un Oscar) e Una spola di filo blu (2015), esce in questi giorni in Italia Un ragazzo sulla soglia, la storia di Micah Mortimer, un uomo la cui vita piena di abitudini consolidate, compresa la quieta relazione con Cassia, viene trasformata dall’arrivo di un ospite inatteso.
Lei è conosciuta come scrittrice delle persone «ordinarie»: chi è, invece, la più straordinaria che ha conosciuto?
«Mio padre: era un uomo incredibilmente paziente e gentile, un attivista politico, un pacifista. Da bambina davo per scontato che le persone fossero così, poi mi sono resa conto quanto sia difficile trovarne».
Da giovani vogliamo essere l’opposto dei nostri genitori, poi crescendo ci accorgiamo di assomigliargli. Lei cosa ha preso da loro?
«Erano molto diversi: mia madre era quella col carattere imprevedibile e irritabile, perciò ho sempre cercato di assomigliare a mio padre. E così sono diventata la persona più prevedibile che conosca. È un po’ la stessa cosa che succede a Micah».
Al quale, però, sembra anche mancare una certa empatia.
«Non riesce a dimostrare quello che prova. È bloccato dall’idea di quello che dovrebbe essere un "uomo"».
I suoi protagonisti sono spesso uomini, un genere che lei sembra conoscere bene. Una volta ha parlato anche di «liberazione maschile», che cosa intendeva?
«Sono cresciuta con tre fratelli, un padre e due nonni. L’unica femmina era mia madre, ed era anche la persona con la quale era più difficile convivere. Penso che gli uomini siano stati messi in uno "stampo" tanto quanto le donne, anche se ovviamente in stampi diversi: fin da piccoli ci si aspetta che non mostrino le loro emozioni e che non si facciano carico di nulla. Poi crescono, e improvvisamente vengono sommersi dalle responsabilità. Deve essere molto difficile essere maschi. Ho delle amiche che avrebbero sempre desiderato essere dei maschi, e ogni volta penso: "Ma perché? Chi mai vorrebbe essere un maschio?"».
Nella loro relazione, Cassia e Micah sviluppano un «metodo». Anche lei e suo marito lo avevate?
«Sì. Io avevo un metodo con lui e lui ne aveva uno con me, ed è così che ci siamo adattati l’uno all’altra. Il periodo peggiore della nostra relazione è stato il primo anno di matrimonio: non avevamo assolutamente capito come essere felici insieme, non avevamo ancora adottato un metodo».
Suo marito era iraniano. Che cosa ama di più di quella cultura?
«Il calore, l’apertura, la generosità. I suoi erano musulmani, perciò immagino non fossero stati molto contenti di sapere che avrebbe sposato una non musulmana. Nonostante questo, mi hanno accolta subito e con estrema gentilezza».
Negli anni Sessanta non era frequente che un’americana sposasse un iraniano. È stato un passo difficile?
«Non più che se avessi sposato un americano: si tratta sempre di due esseri umani con personalità diverse. La cosa sulla quale abbiamo dovuto lavorare di più, all’inizio, è stato superare il fatto che, nella cultura iraniana, l’uomo è la vera autorità. Ma mio marito, come me, era una persona adattabile, così ci siamo riusciti. Probabilmente se fossi andata io a vivere in Iran avrei trovato molte più difficoltà ad adattarmi».
Perché scrive sempre di famiglie?
«Ha presente quei film in cui delle persone si trovano a vivere insieme per forza su un’isola deserta e sono costrette a mostrarsi per quello che sono? La famiglia è esattamente questo: certo, esiste il divorzio, ma in genere le persone restano insieme nonostante quello che accade e fanno in modo che le cose funzionino. Puoi anche pensare: "Non gli parlerò mai più", ma la mattina dopo ti svegli e devi parlargli comunque. Trovo tutto questo estremamente interessante».
Solitamente, nei suoi libri non fa riferimenti a fatti di storia o di politica. In questo invece, a un certo punto, Micah dice di non avere più speranza nel suo Paese. È anche un suo pensiero?
«Sì. Non credo più in un Paese su una strada così palesemente sbagliata. Sono giunta alla conclusione che la nostra Costituzione, di cui parliamo in continuazione e che dovrebbe garantire l’uguaglianza, l’apertura e l’inclusione, non sia poi così buona, visto che non ci sta proteggendo da tutte le ingiustizie che vediamo quotidianamente».
Come mai nel 2012 ha ricominciato a concedere qualche intervista di persona?
«Per aiutare gli editori che in questi ultimi anni stanno facendo sempre più fatica a raggiungere i lettori. La ragione per cui di solito non amo fare interviste è che, quando parlo della mia scrittura, poi per un po’ di tempo non riesco a scrivere. Forse divento troppo autocosciente».
Una volta ha detto di non essere mai stata così saggia come quando aveva 7 anni. In che senso?
«A quell’età, e lo ricordo chiaramente, decisi che tipo di persona avrei voluto essere. Le racconto un episodio. Quando avevo 7 anni, mia mamma dovette andare in un’altra città per partorire uno dei miei fratelli, così rimasi a casa con mio padre. Da subito, iniziai a comportarmi esattamente come lei: lui era quello paziente, io facevo la scorbutica. Quando lui mi chiese: "Cosa c’è che non va, tesoro?", io gli risposi: "Forse sono solo stanca". Si immagina una bambina che risponde in quel modo? Io, però, ne fui immediatamente consapevole e allora capii che, se avessi sposato uno come mio padre, sarei passata per quella "cattiva" della coppia, mentre io volevo essere la "buona". So che può sembrare un pensiero complesso per una bambina, eppure andò proprio così. Quelli furono anche i tempi in cui iniziai a pensare alla morte».
Ha paura di morire?
«No. Penso che a quel punto sarò solo morta. A preoccuparmi, invece, è l’atto del morire: spero di non soffrire, di non ammalarmi, che sia breve».
Sulla scrivania tiene una scatola piena di bigliettini con delle idee. Quanti romanzi ci sono ancora lì dentro?
«Magari nemmeno uno, chi lo sa!».
Non è stanca di scrivere?
«Oh no, anzi, sono così grata alla scrittura. Non so come avrei fatto, durante la quarantena, se non avessi potuto scrivere».
Senta, ma se non avesse fatto la scrittrice che cosa le sarebbe piaciuto fare?
«A volte, mentre stiro, immagino che se non mi potessi mantenere scrivendo potrei andare nelle case degli altri a fare le faccende domestiche. Anche quello sarebbe un modo per entrare nelle vite degli altri, proprio come faccio da scrittrice».