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 2020  giugno 20 Sabato calendario

Intervista a Gabriele Lavia

Scivolando tra un paradosso e l’altro, una contraddizione e una memoria, una battuta e un sospiro, Gabriele Lavia riesce sempre ad alimentare il monumento di se stesso. Nulla è lasciato al caso, e ogni parola, pronunciata con la voce fascinosa di chi ha vissuto incantando platee, evoca immagini colorite, squarci dal dietro le quinte dei teatri, pezzi di storia italiana: «Sono nato a Milano, mia madre era di Acitrezza, poco dopo la mia nascita la città fu bombardata. Mio padre non ha mai dimenticato quel giorno. Mentre correva verso casa nostra, vide la scala del palazzo colpita e un uomo decapitato. Dopo un periodo di sfollamento, tornammo in Sicilia, ho vissuto la mia infanzia a Catania».
Che ricordo ne ha?
«I bombardamenti avevano colpito anche gli impianti elettrici, la mia infanzia è legata alla luce bellissima dei lumi a petrolio. Dopo cena, non essendoci nulla da fare, ascoltavamo il nonno che raccontava le avventure della Prima guerra mondiale e il babbo che parlava della Seconda. Noi preferivamo le prime, ci sembravano storie in costume. Se avessimo avuto un parente che potesse descriverci la guerra di Troia, ci sarebbe piaciuto ancora di più».
L’esperienza del lockdown ha evocato, in qualche modo, l’epoca del dopoguerra. Come ha vissuto il periodo della clausura obbligata?
«Non mi è dispiaciuto, sto quasi sempre chiuso in casa, e, quando uscivo, Roma era bellissima. Sono andato a Piazza Navona, ho fatto una fotografia ed ero l’unico essere umano che in quel momento era lì, a rovinare la piazza».
Adesso l’attendono molti impegni, tra questi il ritorno al cinema, con «L’uomo dal fiore in bocca», prodotto da Manuela Cacciamani con Rai Cinema. Come sarà?
«Guardi, sono stato il primo a essere meravigliato dell’attenzione nei confronti di questa opera di Pirandello. Nella mia versione teatrale il testo non è solo un atto unico, l’ho trasformato, inserendo qua e là altre novelle, e spostando l’azione dal caffè notturno dove si svolge il dialogo tra il pacifico avventore e l’uomo dal fiore in bocca. Ho ingrandito i temi trattati, parlando di un ometto schiacciato dagli impegni, dagli impicci della vita, dalla moglie, dalle figlie, dalle loro amiche, un povero disgraziato che tenta di prendere un treno che invece perderà sempre. Ne è venuta fuori una casa strana, che in teatro ha avuto un gran successo di pubblico».
Nelle storie di Pirandello ci sono spesso piccoli uomini sovrastati dagli eventi e, soprattutto, dalle donne. Lei si ritrova in questa visione?
«Gli uomini sono spesso sovrastati dalle donne, io lo sono, da mia moglie, dalle mie figlie, e questo perché io sono buono. Gli uomini, in genere, hanno caratteri più accondiscendenti, le donne sono più toste, più dure, almeno quelle che ho conosciuto io. E poi, negli uomini l’essere accomodanti è una forma di pigrizia. Quando in casa ci sono gli uomini, come diceva il grande attore Gianni Santuccio, pensano sempre che la battaglia sia un’altra».
Al cinema è stato interprete, diretto da autori celebri, ma anche regista di film ad alto tasso erotico. Che memoria ha di quelle scelte?
«Girare è sempre una cosa molto faticosa, in quel momento mi è capitato di fare quei film, se fosse dipeso da me avrei fatto cose completamente diverse, ma al cinema non ho mai avuto la forza di fare quello che esattamente volevo. Le cose che volevo le ho fatte in teatro, almeno al 90%».
Che cosa le piace del cinema?
«Storicamente il cinema è finito, si basa su un magnifico artificio tecnico, ma, come dire? Anche la biga, anche l’arco e la freccia sono strumenti di combattimento, ma certo oggi non si usano per andare a combattere. Il bello del cinema è il set, i macchinisti, le sarte, i truccatori. Per il povero regista dirigere è un lavoro fisico tremendo, come fare il portabagagli in una stazione dove tutti hanno bauli pesantissimi, e poi c’è l’obbligo di dare sempre risposte, su tutto. Il teatro è infinitamente più difficile, intanto perché bisogna parlare più forte, il set invece, come diceva Vittorio De Sica, è il luogo dei "mormoratori". Sul set se hai la faccia e mormori, va bene lo stesso». 
Parlava di supremazia femminile, eppure le sue compagne di vita sono state anche compagne di palcoscenico. Non ha mai avuto difficoltà nel conciliare i due piani? 
«No, il teatro è un lavoro talmente complicato e difficile che non c’è tempo per niente. Posso dire che, quando ho fatto il regista, ho mostrato certe volte un carattere un po’ aggressivo, i registi vogliono che tutto venga capito subito e fatto in quel certo modo. Recitare è contro natura, tutto è complicato, e naturalmente è successo anche quando ho lavorato con le mie compagne».
Lei è severo?
«Sono pignolo, pignolissimo, in tutta la mia vita, in modo insopportabile. Non so se i miei spettacoli siano belli o brutti, ma so che non c’è mai un pelo che non sia rigorosamente come deve essere».
Sua figlia Lucia fa l’attrice. Che cosa ne pensa?
«È un talento unico, man mano che cresce mi accorgo del conflitto interiore, della sofferenza da artista che prova. È una perfezionista, il nostro lavoro è tutto un doloroso artificio e sento che lo è anche per lei». 
Che cos’è per lei il teatro?
«È la mia vita, è l’infelicità che mi sono scelto. Quando non sono in palcoscenico sto male, ma anche l’amore è così, non si può avere sempre il vento in poppa. L’amore è un mare burrascoso, bisogna essere bravi piloti, sbagliare è facilissimo».