La Stampa, 20 giugno 2020
Quando Vargas Llosa intervistò Borges
L’appartamento non ha nessun fascino: due stanze e cucina nel centro di Buenos Aires, pochi mobili, pareti rovinate dall’umidità, perdite dalle finestre, pochi libri, e un gatto sempre in circolazione. Mario Vargas Llosa entra nella casa di Jorge Luis Borges e si scontra, anche fisicamente, con il suo opposto, ma il fatto di appartenere a universi, letterari e antropologici, così diversi non ostacola l’attrazione intellettuale, anzi, forse la stimola. Da quella giornata del 1981 è nata un’intervista, che viene pubblicata per la prima volta soltanto oggi, nel libro Medio siglo con Borges (Mezzo secolo con Borges), pubblicato dall’editore spagnolo Alfaguara, che oltre a questo dialogo inedito raccoglie conferenze, conversazioni, recensioni, articoli sul grande autore argentino.
Ma, appunto, prima della letteratura c’è l’intrusione domestica, e la descrizione da cronista che fa Vargas Llosa non appena varca la porta: Borges è cieco da trent’anni e mostra, anzi esibisce, una semplicità monacale, talmente eccessiva da sembrargli in fondo «una risorsa letteraria». Il timore reverenziale, se mai uno come Vargas Llosa lo abbia provato, scompare quasi subito: «Entrando in questa casa ci si accorge che lei vive come un monaco, c’è un’austerità enorme, la sua stanza sembra la cella di un monaco trappista». «Il lusso mi pare una volgarità», risponde il vecchio interlocutore. «Lei non ha mai lavorato per guadagnare dei soldi?». «Se l’ho fatto mi pare che non ci sono riuscito...».
Chi va a trovare il maestro deve pagare un solo pegno, leggere ad alta volce un racconto di Conrad o una poesia di Leopoldo Lugones. Dietro a quell’aria da «nonnetto che colleziona bastoni», Borges sa di essere un genio, «anche se, per uno scettico come lui, la cosa non è di alcuna importanza». Niente li accomuna, almeno apparentemente: il peruviano e l’argentino, il realista e il fantastico, il liberale e l’anarchico pacifista. «Pochi scrittori», osserva Vargas Llosa, «mi sono più lontani di Borges , mai mi hanno reso intrigato i temi puramente intellettuali e astratti, come il tempo, l’identità, la metafisica. Al contrario gli argomenti terreni, come la politica e l’erotismo - che Borges disprezzava e ignorava - hanno un ruolo da protagonista in quello che scrivo». Insomma una differenza «abissale».
Eppure il premio Nobel peruviano non ha mai smesso di leggere e rileggere Borges, «fonte inesauribile di piacere intellettuale», senza mai rimanere deluso, «ogni nuova lettura rinnova il mio entusiasmo e la mia felicità, rivelandomi nuovi segreti e sottigliezze di questo mondo "borgesiano" così assurdo nei temi e così diafano ed elegante nello stile». Già alla prima domanda Vargas Llosa va al punto: «Perché qui nella sua biblioteca non ci sono i suoi libri?». Risposta: «Chi sono io per stare accanto a Shakespeare?». Altro stupore: «Non ci sono nemmeno i libri che parlano di lei, eppure ne sono stati scritti molti». «Alicia Jurado ne ha scritto uno, io l’ho ringraziata e le ho detto: "So che sarà un buon libro, ma non lo leggerò, il tema non mi interessa. O forse mi interessa troppo"».
In un’intervista del 1963 fatta durante una tournée europea, Vargas Llosa gli aveva chiesto i cinque libri da portare sull’isola deserta. La domanda è banale, le risposte per nulla: «Storia della decadenza e caduta dell’impero romano di Gibbon, L’introduzione alla filosofia matematica di Russell, poi un libro di Henri Poincaré, un volume dell’Enciclopedia Britannica». La cinquina si conclude con la Bibbia.
È nel 1981 però che i due parlano di tutto, del rapporto con Pablo Neruda, del Nobel mancato. «Perché gli accademici svedesi non glielo hanno assegnato?». «Perché questi signori condividono l’opinione che ho io sulla mia opera».
Inevitabile, poi, che Vargas Llosa, che qualche anno dopo si sarebbe candidato alla presidenza della repubblica peruviana, la butti in politica: «Le sue opinioni a volte mi lasciano sconcertato, però c’è qualcosa che rispetto: le sue polemiche contro i nazionalismi di qualunque indole». «È uno dei grandi mali della nostra epoca», risponde lo scrittore argentino, che in patria veniva accusato, specie nell’ultima parte della sua vita, di essere troppo poco ostile all’odiato Cile. Borges si dichiara pacifista: «In passato non mi ero reso conto che Bertrand Russell, Gandhi, Juan Bautista Alberdi e Romain Rolland avevano ragione».
Speriamo sia breve l’attesa per la traduzione italiana di questa perla.