La Stampa, 20 giugno 2020
«Lo schianto di Alex Zanardi sotto i miei occhi»
Era una giornata di sole ed eravamo tutti contenti, mancava solo una ventina di km a Montalcino, dove finiva la tappa, ci stavano aspettando. Non so che cosa sia successo ad Alex, probabilmente ha sbagliato manovra, ha perso il controllo della sua handbike e si è schiantato contro un autotreno. È terribile quello che è successo, non riesco a pensarci. Zana la mattina era allegro, come sempre. La sera prima era stato uno spasso con i cuochi e i camerieri dell’hotel, una barzelletta dopo l’altra, tutti a ridere come se lo conoscessero da sempre. Scherzava, parlava con tutti, era davvero di buonumore. Solo la mattina ha cominciato a pensare alla gara, ma sempre con il sorriso sulle labbra. Sulla salita, un tratto duro, gli ho fatto vedere un’aranciata e lui anche lì è riuscito a scherzare. «Dammene un po’!» mi ha urlato. Poi ha affrontato la discesa, quel rettilineo, credo si andasse a 50 km orari. All’imbocco della curva Alex ha cambiato traiettoria, una manovra azzardata, e non ha potuto evitare l’impatto con il camion. La sua bici ha girato 2-3 volte su se stessa, il casco di Alex è saltato via. È stato terribile, eppure Alex era cosciente e ha detto anche qualche parola. Ho pensato che lui è come i gatti, ha 7 vite, che deve farcela a tutti i costi, perché Alex non è solo un campione, è un grande uomo. L’ho conosciuto una quindicina di anni fa e subito mi parve diverso dagli altri. Una volta lo trovai che sistemava qualcosa nel portabagagli dell’auto, da dove con un balzo saltò sul sedile del guidatore. «Questo è matto!» pensai, e diventammo subito amici. Zana aveva perso il padre da giovane e mi ha sempre detto che io glielo ricordavo. «Sei come lui, ti incazzi, non me ne perdoni una, ma mi vuoi bene». È sempre stato di una calma olimpica, come se fosse superiore a qualsiasi vicissitudine, forse perché ne ha vissute tante. Quando cominciò col ciclismo non sapeva nulla, anche durante le cronometro sciupava energie parlando, poi metteva il casco sulle ventitré e mangiava male, a volte riso e pasta insieme. Io lo rimproveravo, così lui per vendicarsi mi invitò a fare un giro con un’auto da corsa sulla pista di Imola e lui al volante. Mi fece morire, mai avuta tanta paura, credevo che saremmo usciti di pista a ogni curva, pensai con terrore che su quel circuito era morto Senna. Lui rideva e mi prendeva in giro. Gli dissi che gliel’avrei fatta pagare con il ciclismo, invece gli chiesi di diventare il leader della Nazionale. Ma lui quasi si schermiva, non gli piaceva essere più importante degli altri. Eppure è sempre stato un capitano naturale, con la parola giusta per tutti, quando si correva per una medaglia paralimpica come quando andava gratis negli ospedali a trovare i bambini malati. Diceva che gli era servito leggere tanto nella lunga convalescenza dopo aver perso le gambe in auto. «È stato decisivo per me». Aveva imparato a non mollare mai, ma anche a diventare uno straordinario comunicatore, un personaggio unico e famoso, anche se sempre umile e disponibile. Non l’ho mai visto rifiutare un autografo o un selfie, una battuta o un consiglio. Un eroe indistruttibile, più forte anche delle emozioni. Ma quando a Rio lo vidi piangere per l’oro olimpico lo sentii ancora vicino. Una persona unica e straordinaria. —
(Mario Valentini è Ct dell’Italia di paraciclismo)