La Stampa, 20 giugno 2020
Burocrazia infernale
La ruota delle notizie gira vorticosamente, di questi tempi.
E mentre gli Stati generali dell’economia, voluti dal presidente del Consiglio, finiscono in tono minore, l’attenzione si sposta sul Consiglio Ue, sulla lenta ripresa delle economie europee, sull’ancor più lenta riapertura delle scuole italiane e, perché no, sulla difficile normalizzazione della vita di tutti i giorni, calcio compreso. Le riunioni di Villa Pamphili rimangono, al di là dei toni forse troppo enfatici del presidente Conte, un interessante tentativo di costruire un programma partendo "dal basso", ossia dalle istanze e dai programmi dei corpi intermedi e delle parti sociali e dimostrano quanto sia difficile tradurre in un programma unitario e concreto le molte istanze parziali.
Proviamo invece a guardare all’economia italiana nel suo insieme, come generalmente fanno gli economisti, e quasi mai i politici, a interrogarci sul suo futuro a lungo termine. Coloro che fanno questo esercizio giungono, di fatto, a conclusioni molto simili che si possono così riassumere: se si raggiunge un tasso annuo di crescita del Pil almeno pari al 2 per cento, e si riesce a mantenerlo per oltre un decennio, l’Italia smetterà di perdere terreno a livello mondiale, come sta facendo ormai da circa un quarto di secolo. Con una tale velocità di crescita e con una spesa pubblica tenuta complessivamente sotto controllo, i preliminari della ripresa ci sono: se il Pil cresce più del debito pubblico, il rapporto debito pubblico/Pil diminuisce e l’Italia torna verso la normalità.
A questo punto, la domanda diventa: come si fa a raggiungere quest’obiettivo che fino agli anni Ottanta appariva assolutamente normale? La risposta ce la siamo dimenticata nei lunghi decenni della stagnazione: dovrebbe essere ovvio che il complesso delle risorse deve risultare sufficiente per raggiungere gli obiettivi; invece, nel dibattito economico corrente - compresi gli Stati Generali dell’Economia - si presentano soprattutto richieste, mentre il far quadrare le richieste con le possibilità è sempre compito di qualcun altro.
La gestione complessiva della strategia economica non può essere lasciata al solo mercato, come ci ha insegnato, a livello mondiale, la crisi globale del 2008 e come ci sta ricordando il Coronavirus. Il primo strumento per lanciare il "veicolo Italia" verso l’obiettivo del 2 per cento non può essere altro che la cura e l’incremento delle grandi reti di servizi pubblici, dalle autostrade in cemento alle "autostrade informatiche", dagli edifici scolastici a quelli ospedalieri, a una serie impressionante di infrastrutture abbandonate sciaguratamente al degrado per decenni, mentre le risorse per il loro mantenimento venivano destinate a spese correnti. Una politica di questo genere, con una prima fase incentrata su costruzioni e dintorni, ha un effetto tonificante molto rapido sull’economia e prepara le fasi successive in cui saranno i beneficiari di questi rinnovamenti a trainare lo sviluppo.
Una buona metà di queste opere è già scritta in bilancio. Perché allora non parte mai, e soprattutto perché non si finisce mai nulla? La risposta può essere sintetizzata in una sola parola: burocrazia. E questo non perché i singoli funzionari pubblici siano incompetenti ma perché il meccanismo delle decisioni pubbliche è divenuto una macchina infernale dalla quale non esce quasi niente. Senza partire da una chiara e rapida catena di decisioni, da realizzare subito, magari in via sommaria e provvisoria, sicuramente entro la pausa estiva, il cosiddetto "piano Colao" rischia di diventare l’ennesimo castello in aria e degli Stati generali non si ricorderà più nessuno. E l’Italia continuerà a stagnare, e a perdere giovani, se tutto andrà bene.