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 2020  giugno 20 Sabato calendario

Su “Che cosa vediamo quando leggiamo”

In una lettera al suo editore del 25 ottobre 1915, Kafka si raccomanda che sulla copertina de La metamorfosi non compaia nessuno scarafaggio: «Questo no, per carità, questo no! L’insetto non può essere disegnato. Non lo si può far vedere neanche da lontano». La ragione è chiara: la mutazione del protagonista è una faccenda metaforica e quello di Kafka non è un racconto horror né di fantascienza. Eppure, nei cento anni che ci separano dalla sua invenzione, l’immagine dell’insetto ha preso il sopravvento: campeggia sulle copertine di tutto il mondo e degli editori più diversi, a dispetto dell’autore che avrebbe voluto lasciare libera la fantasia di chi l’avesse letto. Già, ma cosa vediamo nella nostra testa quando leggiamo?
È ciò che si è chiesto Peter Mendelsund in un libro brillante e fuori dal comune appena pubblicato da Corraini. Mendelsund è un grafico editoriale, come art director per l’editore newyorkese Knopf ha progettato la veste di decine di romanzi, un mestiere che pone problemi di immaginazione e di responsabi-lità: quando si illustra una copertina quanto bisogna mostrare davvero? Quanto spazio va lasciato al lettore? E in quali occasioni è opportuno essere didascalici oppure allusivi? Oltre a questo, Mendelsund ha una formazione da pianista classico, e c’è da pensare che anche quest’arte – più astratta e impalpabile rispetto a quella figurativa – abbia avuto un ruolo nelle sue riflessioni.
Guardando un quadro o un film vediamo cose precise, quando ascoltiamo Bach o Chopin la nostra mente si intrattiene con forme più sfuggenti. E quando leggiamo un romanzo? Sono domande che non ammettono una risposta precisa o perlomeno non una soltanto. E difatti il risvolto più affascinante del libro non è tanto in ciò che spiega, ma nelle associazioni che ci suggerisce. Mendelsund procede per esempi e suggestioni, in modo rapsodico e dalle angolazioni più imprevedibili: ci porta da Tolstoj a Gogol’, da Melville a Flaubert, proponendo questioni in apparenza banali e che si rivelano invece sorprendenti. Tanto che ogni volta verrebbe da dire: «Non ci avevo mai pensato!». E da qui nasce il divertimento, perché il libro di Mendelsund è divertente e anche molto bello. L’autore lo ha scritto, ne ha curato la ricerca iconografica e lo ha pure impaginato (del resto è il suo lavoro). Non si tratta di una questione secondaria: il modo in cui le pagine si susseguono o rimandano l’una a l’altra è già parte dell’argomento.
«Se vi chiedessi di descrivermi Anna Karenina, forse vi mettereste a parlarmi della sua bellezza – scrive Mendelsund – Ma che aspetto ha Anna Karenina?». E così, nella pagina successiva, ci mostra un dipinto ottocentesco con il volto sfocato. Lo osserviamo. Ragioniamo. Poi andiamo avanti ed ecco che compare un identikit, di quelli della polizia, in cui un software ha ricostruito il volto della Karenina usando tutte le descrizioni fornite da Tolstoj. Come ci sembra? Delusi? Probabilmente sì. Dei personaggi letterari non abbiamo un’immagine così stabile, così definita. Molte pagine dopo – quando ormai pensiamo a altro – Mendelsund ci mostra l’attrice Keira Knightley nella versione cinematografica di Anna Karenina: «Quest’immagine è un furto», afferma. Un furto ai danni della nostra libertà.
E che dire degli occhi di Emma Bovary? Nel romanzo cambiano colore più volte, Flaubert sostiene che sono marroni, ma talvolta di una tinta così intensa da sembrare blu. Ecco: se un fatto del genere accadesse in un film avrebbe un significato forte, ci chiederemmo che cosa sta succedendo, visto che personaggi con gli occhi che cambiano colore di solito sono tipici dei cartoni animati o dei film fantastici. Nella pagina scritta, invece, quello slittamento cromatico è piuttosto una qualità poetica, sfumata, che avvolge la fantasia senza imporle un dovere o una direzione.È poi un fatto che, da quando esiste il cinema, molti lettori hanno cominciato a usare i codici del film anche durante le proprie letture mentali: ci si figura un primo piano, un campo lungo, una carrellata. Certo, alcune storie ci chiedono di farlo di più e altre di meno, e non tutti lo facciamo allo stesso modo; anzi, c’è chi non lo fa per niente.
Insomma, la materia è incandescente: il libro pone questioni epistemologiche, fenomenologiche, e si potrebbero chiamare in causa anche le neuroscienze. Tuttavia Mendelsund mantiene sempre un tono leggero: il suo non è un trattato e non pretende di esserlo. Forse è un nuovo tipo di saggistica. L’andamento per associazioni e per salti logici somiglia a una presentazione PowerPoint (ma fatta molto bene) o a un talk in stile Ted. È filosofia e pure entertainment e la domanda di fondo non è da poco: in un’epoca in cui ogni storia diventa film, cartone animato, videogioco, quale spazio rimane alla nostra immaginazione di lettori?