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 2020  giugno 20 Sabato calendario

“I superstiti del Télémaque”, non una riga di troppo

«Bioccoli di fumo e un fine pulviscolo di noia». Intorno alla poca luce che illumina i caffè e gli interni casalinghi, in un paese della Normandia che vive di pesca (aringhe nei dintorni e merluzzi verso i banchi di Terranova, siamo a fine anni Trenta). Di rado Georges Simenon indugia su notazioni d’atmosfera. Quando lo fa, anche la noia ha una sua concretezza. Ogni tentazione esistenzialista muore prima di nascere.
I superstiti del Télémaque esce nel 1938, l’anno record che vede arrivare in libreria tredici Simenon. Più di uno al mese, il ritmo concordato – si fa per dire, sul contratto c’era scritto “sei”, e già la casa editrice faticava a rispettarlo – con il direttore commerciale di Gallimard. Impossibile pensare a un lancio pubblicitario per ogni titolo, quindi stabilirono una cadenza regolare: per il lettore affezionato, l’appuntamento era al quindici del mese.
Georges Simenon era convinto che trenta giorni fossero il giusto intervallo per mantenere il contatto con i suoi lettori. Negli anni ’70, Stephen King e il suo editore pensavano che un volume all’anno bastasse a saturare il mercato: il surplus veniva smaltito a firma Richard Bachman ( morto, come sanno i fan, di «cancro allo pseudonimo» ). Il belga scriveva alla sua velocità, quindici giorni bastavano per un romanzo. Scarsa era la voglia di rileggere o controllare le bozze: dopo pochi mesi l’entusiasmo era sul romanzo nuovo. L’editore chiamava, lo scrittore non si faceva trovare.
Simenon cercava i nomi dei suoi personaggi sull’elenco telefonico, per gli appunti usava una busta. I Canut, i Paumelle, i Février, i Pissart suonano azzeccati e realistici. I superstiti del Télémaque inizia con l’arrivo del Centaure, peschereccio che rientra con il suo carico di aringhe. A Fécamp lo vedono arrivare, la cittadina si mette in movimento. I conti delle botteghe saranno saldati, le pescivendole avranno merce da vendere. I marinai hanno bisogno di provviste e voglia di qualche bicchiere al bar. L’armatore pretende che ritornino subito a bordo, per salpare con l’alta marea nonostante il mare grosso.
Quattro sconosciuti ( il lettore li ha notati qualche pagina prima, mentre mangiavano croissant in albergo) si presentano sul molo e arrestano il capitano Pierre Canut. Lo accusano di aver sgozzato il vecchio Février, nella sua casa ai piedi della scogliera, portandogli via denaro e titoli. Erano legati da una storiaccia marinara di trent’anni prima, puntualmente riferita da giornali da leggere – e commentare – al caffè.
Il Télémaque era affondato al largo di Rio de Janeiro. Un mesetto dopo, una nave britannica trovò una scialuppa con cinque marinai in pessime condizioni. Quattro se la cavarono, il quinto morì: sul polso aveva una strana ferita. Era un altro Pierre Canut, padre del marinaio arrestato e del gemello Charles. Saputa la notizia, e diffidando degli avvocati, il gemello a piede libero fa le sue indagini. La madre, vedova Canut, considerava Février l’Anticristo e lo insultava per strada. Le voci riportate dai giornali parlavano di un sesto marinaio, e di gesti estremi per mantenersi in vita.
Disposte le pedine, Simenon procede con una sicurezza e un risparmio di mezzi da ammirare senza riserve. Pagina dopo pagina, mai una zeppa né un filo di grasso. Puro piacere – per il lettore, almeno. Lo scrittore voleva che almeno gli riconoscessero la difficoltà di far parlare marinai e cameriere senza sbagliare mai registro. Arrivati alla fine, sentiamo anche noi l’odore di salmastro che aveva spinto lo scrittore belga a scrivere il romanzo ( giusto anche di lunghezza, neanche 200 pagine per non annoiare). Nel Tirolo austriaco, tra la neve, ebbe un attacco di nostalgia per mesi freddi profumati di acquavite e di aringhe sulla griglia. Fécamp, appunto, dove per camminare nel fango puzzolente servono gli stivali di gomma. La nostalgia – priva di grazie e abbellimenti, caso raro tra gli scrittori – si ferma qui.
Nel 1937 era uscito Il testamento Donadieu, più massiccio (fu commissionato come romanzo d’appendice) e più complicato nella trama: «Balzac senza le lungaggini», secondo il collega, scrittore, e fan Marcel Aymé. Grazie al prestigio di Gallimard, il trentacinquenne Simenon comincia a pensare ai premi, e al favore della critica ( i tredici romanzi del 1938 assommarono oltre 300 recensioni).
Non sarà impresa facile. Piaceva troppo ai lettori per essere preso sul serio, anche all’interno della casa editrice. Scriveva senza gli arzigogoli e le fioriture che spesso – ancora oggi – sono considerati segno sicuro di letteratura. I superstiti del Télémaque è un magnifico esempio di narrazione pura: niente risvolti, allusioni, tracce di impegno ( tranne quel che serve per far girare bene le frasi).
Quando passava in casa editrice, dove tutti parlavano a bassa voce, faceva l’effetto di un tornado. Discuteva i contratti fino all’ultima clausola, attentissimo ai diritti cinematografici e alle traduzioni. Altro grave difetto: gli scrittori che si fanno pagare bene raramente vincono i premi. Gaston Gallimard lo aveva fermamente voluto, e agli inizi lo pubblicò in perdita (garantisce il biografo Pierre Assouline). Il contratto andava ridiscusso ogni anno. E per carità, in casa editrice: Simenon odiava i pranzi di lavoro.