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 2020  giugno 20 Sabato calendario

Reportage da Mogadiscio

MOGADISCIO (SOMALIA) Innanzitutto, il blu dell’oceano. Il bianco perfetto delle case di pescatori. Un’aria, guardando dall’oblò, di languore italiano. D’altronde Mogadiscio non vuole forse dire, in somalo, il giardino dove ci si ferma per un tè? Ma all’atterraggio lo scenario cambia: un aeroporto come una fortezza, contornato di sacchi di cemento rinforzati con un’intelaiatura in ferro, su cui i jihadisti di al-Shabaab hanno sparato per l’ennesima volta un colpo di mortaio; agenti di dogana diffidenti che non vi parlano del coronavirus, ma vi chiedono se siete armati; la città quasi interamente distrutta, con i suoi edifici sventrati, disossati dei loro ferri per cemento armato e delle loro travi d’acciaio. E sulla terrazza più alta del vecchio ospedale Xooga, questa scena: inginocchiato sopra al vuoto, fra le macerie, un tiratore scelto dell’esercito governativo che cerca un cecchino ribelle. «Ma gli Shabaab non hanno lasciato la città?», dico all’orecchio del sergente che si tiene leggermente discosto. «Prima notizia», risponde soffocando una risata. «Mogadiscio è un colabrodo». Fa con le mani il gesto di scuotere uno scolapasta. «Questi terroristi entrano come vogliono. Perfino qui, nel cimitero dell’ospedale, aspettano che la sepoltura cominci e…». Vedo più in basso, sotto la cupola di un albero di incenso, un assembramento di donne che ondeggiano nelle loro abaya multicolori; più lontano, davanti a una tomba, degli uomini in assemblea, e poi un convoglio di 4x4, segno dell’eminenza del defunto. Ma il sergente ci trascina nell’unico angolo della scala protetto da uno scampolo di tetto. Il soldato spara. E un pickup parte in una nuvola di polvere rossa. Quando ridiscendiamo, le donne sotto l’albero non si sono mosse.
Il problema, quando si arriva a Mogadiscio, è dove dormire: l’hotel Afrik è stato polverizzato da un’autobomba; il Syl a fine dicembre era al suo terzo attacco; al Sahafi International, c’è stata una carneficina; al Central è stata la receptionist ad azionare la sua cintura esplosiva; e quanto al Wehliye e al Siyad, non va molto meglio: due attentatori sono riusciti a superare gli sbarramenti e si sono fatti saltare in aria all’interno. Gli alberghi sono presi di mira. Perché è lì, in questa Grozny africana, che si barrica tutto ciò che si apparenta a un ministro, un graduato o un funzionario internazionale. E la soluzione migliore è ancora questo accampamento, incollato all’aeroporto. Sono insediati qui, dentro a container riadattati, riparati dietro enormi barriere anticarro fatte con sacchi di sabbia: gli ufficiali ugandesi e burundesi dell’Amisom, la missione dell’Unione africana accorsa in sostegno di un governo di transizione barricato nella sua green zone; qualche ausiliario delle rappresentanze diplomatiche e agenti dei servizi segreti; alcuni soldati delle forze speciali italiane; quella manciata di Navy Seals rimasta dopo il 1997, quando gli americani decisero di andarsene in seguito all’abbattimento dei loro Black Hawk; qualche mercenario e poi i cento «mentori» della Bancroft, l’agenzia privata americana, finanziata dal dipartimento di Stato, che addestra i commando dell’Amisom e gestisce questa base che sembra uscita da un romanzo di Greene o di de Villiers.
Partenza, all’alba, per il fronte di questa strana guerra dove un esercito eteroclito va ad affrontare un’armata tanto più temibile quanto inafferrabile, e che ha la consistenza delle ombre. È un colonnello ugandese che comanda la colonna. Un plotone di ricognitori somali prende la testa del gruppo: segue un veicolo di protezione burundese, un blindato Casspir di 11 tonnellate fabbricato in Sudafrica dove ci ammassiamo in un calore soffocante, e infine due Vab (autoblindi leggeri). Ci ripetiamo le ultime istruzioni: attenzione alle bombe artigianali; al pericolo dei finti posti di blocco; e poi la parte peggiore è il ritorno, perché si pensa di essere ormai fuori pericolo, ma c’è solo una strada e gli Shabaab sono ripassati dietro di noi. Ci danno un giubbotto antiproiettile piombato fino al mento, un laccio emostatico che ci insegnano ad annodare sopra la ferita e poi un’ultima informazione sull’ingegnosità di questi esperti in burkubi, la distruzione selvaggia, maestri dell’arte della mina multipassaggio, che scatta solo la seconda o terza volta. Alla nostra sinistra, un paesaggio di laguna e delle saline. Sulla destra, delle dune che sembrano pece e una boscaglia da cui non si riesce a far sloggiare i primi terroristi al mondo ad aver sintetizzato il doppio modello al-Qaeda («l’islam non ha territorio») e Isis (radicamento in un entroterra gestito come un «califfato»). All’improvviso, l’artigliere avvista un drone che sorvola la macchia. Gli Shabaab, in teoria, dispongono soltanto di droni spia. Il militare spara e il drone casca, roteando su se stesso, nel cielo calmo e senza uccelli.
Jazira è l’ultimo villaggio sotto controllo somalo lungo la costa. Oltre, comincia il regno degli Shabaab, con le esecuzioni pubbliche, le lapidazioni delle adultere e i tribunali islamici. Lo scopo è farci vedere e confortare gli abitanti del villaggio nella convinzione di aver scelto la parte giusta. Una mezza dozzina di soldati governativi parte a caccia di informazioni, con la paura di incappare in una casa che è stata minata: «Che novità ci sono? Gli Shabaab sono tornati? Vi sentite sicuri?». Un’altra unità si arrischia fino alla spiaggia. E poi una terza, composta da uomini della Bancroft, scorta Fatima, l’infermiera che ci accompagna da Mogadiscio, fino all’ambulatorio, dove pazienta un centinaio di donne: raccontano delle gravidanze a ripetizione, della violenza dei mariti, del piccolo denutrito che tossisce e ha smesso di crescere. Il segnale brutto è che gli uomini non si fanno vedere. Salvo uno, barba da salafita, che spunta fuori al momento della distribuzione dei palloni ai bambini.
È l’ora della colazione e gli ufficiali del nostro compound, abituati alla «Mogadiscio Music», non sembrano sorpresi quando sentono la deflagrazione. Secondo la radio militare, è un attentatore suicida che si è fatto esplodere con la sua auto, il terzo caso in un mese nella zona del «Chilometro 4», l’incrocio gigante vicino al mercato di Bakara che rappresenta il cuore della città. Il tempo di arrivare, un’ora appena, e tutto è stato ripulito. Della carcassa della macchina non resta nemmeno un frammento. In questa città dove devi essere un pezzo grosso perché ti mandino un’ambulanza, ci si è organizzati per evacuare i corpi. E si distinguono appena sull’asfalto, intrufolandosi tra le macchine e i tuk-tuk che hanno ripreso il loro girotondo senza fine e il loro assurdo concerto di clacson, delle tracce nere di sangue secco che non sono state lavate bene. La vita si è ripresa i suoi diritti. La città cannibale è tornata come se niente fosse al suo ansimare comatoso. E il nostro accompagnatore sembra essere il solo a ricordarsi che spesso è proprio in questo momento che gli Shabaab lanciano una seconda autobomba, e stavolta, visto che tutti sono incastrati, fa una cinquantina di morti.
Ci sono solo due forze che possono portare una sembianza di ordine in questo caos demenziale. I turchi, innanzitutto. Un tempo c’erano anche gli arabi, quelli degli Emirati. Considerando che gli americani si limitano a dei raid aerei, che l’Ue ha un imponente programma di aiuti ma sul terreno non se ne vede traccia e che i cinesi non si sono ancora accorti dell’interesse di questo Paese maledetto da Dio, restano soltanto loro, i turchi, fin troppo contenti di essere soli nel Corno d’Africa, di fronte a uno Yemen dalla grande rilevanza strategica. Fanno il doppio gioco. Da un lato: un’ambasciata nuova di zecca; una base militare da cui non escono mai, ma colossale; il nome di Erdogan affisso sulle arterie principali; e quando, il 28 dicembre scorso, tocca a loro essere vittime di un attentato, alzano il tono e fingono di sostenere «il governo legittimo del presidente Farmajo». Dall’altro lato: compiacenza verso il fondamentalismo degli Shabaab; rifiuto di associarsi all’operazione lanciata dagli europei per lottare contro la pirateria; e occhi chiusi quando si scopre che è attraverso una filiera turca che i soldati rivendono ai jihadisti le armi degli aiuti internazionali.
E poi c’è l’altra forza, la Bancroft. Richard Rouget, il suo padrone, in una vita precedente fu un luogotenente degli affreux (gli orrendi) di Bob Denard, il famoso mercenario. Ma oggi è un personaggio romanzesco. E anche se fa la parte del dandy che non porta mai armi, ha messo insieme una strana legione, composta da mercenari di 18 nazionalità: c’è Sigitas, il lituano, che chiamano per disinnescare gli ordigni sofisticati; c’è Dariusz, il polacco, che nel suo briefing quotidiano indica sulla sua mappa il check point dove passerà il prossimo camion con esplosivi nascosti; c’è Ingemar, il medico militare svedese, che arriva per primo sui luoghi dei massacri; e c’è lui, Rouget, che quando gli ugandesi si dimenticano che ci sono fossati anticarro, raduna dei fanti e si lancia all’assalto. È folle, ma è così: questa città senza legge, dove l’esercito è spaccato in fazioni, dove i contingenti dell’Amisom pensano solo a rientrare in patria e dove i servizi segreti sono infiltrati dal Qatar, o dagli Shabaab, ha messo le sue sorti nelle mani di un centinaio di mercenari conradiani.
Poi c’è il sindaco. È un ex signore della guerra. Un capo militare e un capo clan. Vale a dire un nemico giurato degli Shabaab. E ho un’immagine di lui appollaiato sopra una montagna di detriti dopo un’esplosione: ha un portamento bello e fiero. Ma qual è la legittimità di un sindaco nominato da un presidente assediato nel proprio palazzo? E come si fa a governare quando il tuo predecessore è morto in un attentato suicida,? Essendo sera tardi, ci riceve a casa sua, in fondo a una strada disseminata di spazzatura. Sembra spossato. Seduto su un trono, tutto dorature, senza mai staccare gli occhi dal suo portatile, sorride solo quando si parla della spinosa questione di sapere se il suo soprannome sia «Finish», perché ha sempre avuto per principio di non fare prigionieri, o «Filish», come la danza, di cui improvvisa un saltello, a piedi nudi, sulle punte, le ginocchia piegate nei suoi pantaloni metallizzati. Quanto alla sua città, acconsente a parlarne più tardi, durante la cena, quando evoco l’idea di una conferenza internazionale delle città assassinate e martiri, a cui Mogadiscio sarebbe invitata.
Cosa si provi a essere presi a sassate, con un’orda urlante che lancia pietre, sono dovuto venire a Mogadiscio per scoprire com’è. Ci avevano indicato, nella città vecchia, uno di quei famosi tunnel, che puzzano di topi morti, che gli Shabaab utilizzano per circolare da una casa all’altra. Siamo entrati in uno di questi dedali di pietre franate. Nel giro di qualche minuto, siamo incappati in un gruppo di giovani in jeans, seduti per terra, spossati dal caldo. Uno di loro si è tirato su per gridarci che non voleva essere fotografato. Un altro aveva rincarato che non volevano stranieri lì. E quando noi abbiamo tentato di parlamentare e sottolineare che non eravamo yankee, la loro furia è raddoppiata e hanno cominciato a lanciarci chi una lattina di coca-cola vuota, chi un coccio di vetro, chi una pioggia di sassolini.
E gli Shabaab? Eccone uno. È uno spedizioniere europeo che ha organizzato l’incontro al porto, nel rimorchio di un camion abbandonato, in fondo a una di quelle file di container lunghe centinaia di metri. D’altro canto il suo lavoro era di controllarli, tassarli, e un giorno, talmente era abituato, non farli più aprire. È qui che sono cominciati i suoi problemi. L’Amniyat, il misterioso servizio segreto degli Shabaab, ha ritenuto che si stesse prendendo troppe libertà. Non hanno gradito che avesse chiesto di essere trasferito e di diventare guardacoste. Si sono messi a spiarlo, a telefonare ai suoi figli di notte per terrorizzarli. E poi, un giorno, è arrivata la missione di troppo: lo hanno incaricato di organizzare un attentato nel suo quartiere, contro un commerciante che non pagava il pizzo ma che apparteneva al suo clan. E questo non ha potuto farlo. C’è un limite alla follia di un uomo? Una zona a cui non bisogna avvicinarsi se non si vuole che si spezzi? E quanti sono, come lui, a essersi dissociati da questa mafia e a vivere nel terrore, andando di nascondiglio in nascondiglio, nella speranza di riciclarsi con un servizio segreto straniero? Pochi, temo. Molto pochi. E arrivo al termine di questa inchiesta con la sensazione che sia l’ordine Shabab, dopo vent’anni di una guerra inutile, a regnare ancora sulla Somalia.