La Stampa, 19 giugno 2020
Caro Indro, a 12 anni eravamo così
È iniziato tutto il 15 giugno con una foto e tre hashtag: #12anni, #iosonodestà, #eccolalavostracontestualizzazione. Un post di Francesca Turrini su Facebook per reagire alla polemica che si è scatenata da quando ci si è ricordati che Montanelli aveva comprato Fatima Destà, una bimba eritrea di solo 12 anni, e aveva avuto con lei rapporti sessuali.
Com’ero io a 12 anni? Si chiede Francesca, e lancia la palla nel campo di tutte coloro che come lei, quando avevano 12 anni, pensavano al mare e ai giochi e alle bambole e, no, non è ammissibile che un uomo possa anche solo immaginare di poterci rubare l’infanzia. E siccome la sorellanza esiste - anche se a tratti viene da chiederci dove sono alcune sorelle - è nata una catena di foto e di hashtag in cui tante donne hanno deciso di metterci la faccia e di dire «basta» a quella che stava diventando una polemica sterile e assurda sulla storia e gli errori individuali, la vergogna e la buona fede.
Lo stupro è sempre condannabile e chissenefrega il contesto. Questo magari è bene dirlo subito, altrimenti non vale nemmeno la pena di parlare della schiavitù o della tortura, del colonialismo o della Shoah. Così come è bene dire subito che nessuna donna è in vendita e nessuno può arrogarsi il diritto di cercare scuse o contestualizzazioni vane. Com’eri tu a 12 anni? Verrebbe da chiedere a chi storce il muso: «Un tempo non si parlava di pedofilia»; «Vogliamo riscrivere la storia?»; "non erano i figli dei fiori che parlavano di amore libero e pensavano che i bambini amassero il sesso? Il problema, oggi, non è d’altronde l’archeologia dei concetti: capire quando (o come) si è capito che nessuna relazione sessuale può prescindere dal consenso e che il consenso, quando si è bambini, non lo si può dare, anche semplicemente perché non si capisce a cosa esattamente si consente o meno. Queste sono questioni filosofiche: molto interessanti, ma fuori tema. Il tema, oggi, è lo scandalo dello stupro di una bambina, uno scandalo che ogni donna vive sulla propria carne, quando prova a ripensare a quei giorni dell’infanzia, quando era troppo piccola per difendersi da sola e aspettava che fossero gli adulti a farlo.
Il tema, oggi, è il rispetto delle donne e del loro corpo, della loro fragilità ma anche della loro forza. Perché di forza ce ne vuole tanta per decidere di mettere su Facebook una foto e testimoniare, sapendo benissimo che i social sono ormai una giungla, e ogni parola (o immagine) che viene pubblicata finisce col trovarsi al centro di una tempesta di insulti. Ma, siccome la sorellanza esiste, allora si raccoglie il testimone e si contestualizza altrimenti: «Questa sono io», «questo è il mio contesto», «questo è quello che sognavo e speravo e amavo e desideravo». Il resto è cialtroneria. O malafede. Perché poi c’è anche quella che oggi va di moda, e allora ci si contorce nel politicamente corretto per evitare di scegliere un campo piuttosto che un altro, e si lasciano sole le persone più fragili, negando loro lo statuto di vittima. C’è persino chi si lamenta di quella che viene qualificata «la postura da vittima», come se ci si potesse crogiolare nel dolore e nel passato. Senza capire che certe cose brutte che accadono quando si è piccoli non passano mai, e che non è vero che il tempo ripara tutto.
Posso anche sbagliarmi, non pretendo di possedere la verità, ma credo che il messaggio di questa catena simbolica di fotografie e hashtag, in fondo, sia semplice: ci sono gesti intollerabili, ci sono azioni che non possono essere giustificate, ci sono momenti della vita che restano sacri. E poi c’è il corpo delle donne, di nuovo e ancora lui, che non è un semplice oggetto, ma ciò che ogni donna «è» e «ha» al tempo stesso, il luogo intimo della propria soggettività, il tempio del proprio io. Quel corpo che «c’è, e c’è, e c’è, e non trova riparo», come scriveva Wislawa Szymborska. E questo è qualcosa che i maschi, prima o poi, dovranno finire con l’accettare.