Il Messaggero, 18 giugno 2020
Sul libro di Franco Bernabè “A conti fatti”
Non è la storia del capitalismo italiano, ma il resoconto autobiografico di quarant’anni passati alla guida di due grandi gruppi di Stato, Eni e Telecom, che insieme alla Fiat hanno a lungo rappresentato il capitalismo italiano. E non è un caso che Franco Bernabè dedichi lincipit di A conti fatti: quarant’anni di capitalismo italiano a un episodio in apparenza minore: una passeggiata insieme alla moglie Grazia tra la Karl Liebknecht Strasse e la Spandauer Strasse in quello che fino a poco tempo prima era stato il centro di Berlino Est, là dove ancora oggi occhieggiano tra gli alberi le statue di Karl Marx e Friedrich Engels. Era l’autunno 1990 e la riunificazione delle due Germanie era stata dichiarata da poco. Forse allora nessuno immaginava che dalla caduta del Muro sarebbe scaturito, di lì a poco, lo sconvolgimento economico-finanziario e sociale i cui effetti vediamo ancora oggi, e che darà forza alle teorie di Francis Fukuyama sulla «fine della storia».
LA CHIAMATA
Ma se un’epoca andava eclissandosi, per Bernabè quelli erano i giorni in cui maturava la sua chiamata alla guida del più strategico dei gruppi pubblici: l’Eni, un colosso che fino ad allora aveva avuto un ruolo centrale, sebbene non sempre trasparente, nella gestione del potere politico in Italia. Sfogliando anche rapidamente il libro, realizzato con la collaborazione di Giuseppe Oddo, emerge subito una certezza: il leggendario archivio di Franco Bernabè non è una leggenda. Troppo precise le ricostruzioni di fatti economici e riferimenti politici lontani, troppo nitidi gli episodi personali: solo una memoria fotografica li può restituire con la freschezza di eventi appena accaduti. Ed è disarmante la semplicità con la quale l’autore riesce a intrecciare vicende familiari ed eventi d’interesse nazionale: non c’è bisogno di scavi giornalistici sul perché la figura di Bernabè sia stata più volte evocata per delicati incarichi di governo o ruoli apicali in situazioni che richiedevano l’intervento delle diplomazie parallele. Il mistero è spiegato lì, nelle prime 100 pagine del libro, dove il manager racconta delle sue origini, della formazione universitaria e delle frequentazioni parigine negli anni passati all’Ocse; e dove per la prima volta parla senza veli del significato e del ruolo dei Bilderberg Meetings, alle cui riunioni era stato invitato per la prima volta nel 1998 da Gianni Agnelli del quale era stato ghostwriter a cavallo degli anni 70/’80.
Figlio di un capo stazione distaccato a Innsbruck, prima dei vent’anni Bernabè legge già in quattro lingue oltre ad aver conseguito il diploma di high school a Portland, negli Stati Uniti. Ma è soprattutto la frequentazione di Franco Reviglio e la partecipazione al Laboratorio Cognetti de Martiis a Torino, che lo apre al pensiero di giganti come Luigi Albertini, Attilio Cabiati, Luigi Einaudi, Riccardo Fubini, Pasquale Jannaccone, Eugenio Masè Dari, Gioele Solari, Costantino Ottolenghi, Piero Sraffa.
L’INCONTRO SEGRETO
Non a caso attorno al Cognetti in quegli anni gravitano personalità del prestigio di Luigi Firpo, Alessandro Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio. Per non parlare del Ceses di Renato Mieli, il Capitano Maryl da cui Bernabè ha forse mutuato l’inclinazione a perfezionare i processi di intelligence che poi riverserà nelle sue attività. Non a caso il presidente Cossiga lo chiamerà invitandolo a far parte della Commissione di riforma dei servizi segreti. Ed è anche grazie a questa esperienza che un anno dopo, alla fine del 1993, ormai saldamente alla guida dell’Eni, riesce a sventare il tentativo di indebolire l’Italia in Libia attraverso accordi con la francese Elf orchestrati dai servizi segreti di quel Paese.
Ma a parte gli ampi cenni sulla formazione intellettuale dell’uomo Bernabè, A conti fatti si rivela una miniera di notizie inedite legate alle vicende finanziario-imprenditoriali del ventennio a cavallo del secolo. Per esempio sfata un mito che è ancora vivo nelle cronache attuali: l’avvio del processo di privatizzazioni, che nel 1992 il governo Amato presenterà come una manovra finalizzata a introdurre un pluralismo dell’economia che fino allora aveva solo la Fiat come momento di contropotere privato, in realtà non fu la conseguenza di una scelta ideologica. Fu una necessità dettata dal deterioramento della finanza pubblica proseguito per tutti gli anni Ottanta.
Il rapporto debito-Pil, che nel 1980 situava intorno al 55%, aveva superato il 100% nel 1990 e mostrava segni di accelerazione. Per di più si era alla vigilia della riunificazione delle due Germanie, con la grave crisi valutaria che l’Italia ha pagato più di altri in Europa. Insomma, il Tesoro aveva bisogno di cassa: di qui le privatizzazioni. Che videro Bernabè in prima linea con Eni e con Telecom Italia.
E non manca il capitolo Mani Pulite, che ha visto il gruppo petrolifero e molti suoi manager finiti nel mirino delle procure non solo per l’affare Enimont che diede origine alla «madre di tutte le tangenti» con l’ampio corollario di incontri con la politica e Raul Gardini (del quale Bernabè offre un ritratto tutt’altro che lusinghiero, mentre rivela di aver proposto a Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni, un’Opa ostile sulla Ferfin, cui faceva capo la Montedison); ma anche per l’attività di finanziamenti illeciti che il gruppo aveva esercitato per anni. Fino alla rivelazione di un incontro segreto a Berna tra il manager e la procuratrice federale svizzera Carla Del Ponte che darà vita a un nuovo filone di indagini: un racconto senza veli che offre uno spaccato di quelle vicende assai diverso da quello conosciuto.
GLI INTRECCI
Poi c’è il capitolo Telecom, alla cui guida Bernabè viene chiamato nel 1998, una vicenda densa di colpi di scena, dal progetto dei «capitani coraggiosi» per scalare l’azienda (con il doppio scontro avuto con l’allora premier Massimo D’Alema molto favorevole a quell’assai discutibile operazione) fino al suo ritorno al vertice della società nel 2007. Ed è impressionante la quantità di intrecci inediti e di approcci falliti che Bernabè rivela, molti dei quali finalizzati a frenare un processo di maturazione del capitalismo italiano che pure avrebbe potuto nascere dalle grandi privatizzazioni degli anni 90. Nelle conclusioni di ciò che appare il bilancio di una straordinaria avventura professionale, non troviamo giudizi perentori su quel che è stato, ma suggerimenti su ciò che potrebbe essere. Una frase di Bernabè però colpisce: «Sono stato guidato dalla passione e non dalla convenienza».