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 2020  giugno 18 Giovedì calendario

Una vecchia intervista a Paul McCartney

La prima volta non si scorda mai. Soprattutto la prima volta che incontri uno dei Beatles. Era il 9 dicembre del 1987 quando mi ritrovai a tu per tu con Paul McCartney. Ci volle un certo sforzo per mantenere il decoro professionale. Era il giorno che seguiva l’anniversario della morte di John Lennon: «Ieri è stato firmato l’accordo tra Reagan e Gorbaciov (il patto che sancì di fatto la fine della guerra fredda, ndr ) », ricordò McCartney, «non so se Reagan o Michail siano fan di John ma la coincidenza è interessante».
Paul era in un momento cruciale della sua carriera solista, stava ricucendo antiche cicatrici mai del tutto guarite, e per la prima volta ammise che John gli mancava. A proposito del lavoro con Elvis Costello di quei giorni disse: «È appagante lavorare con lui soprattutto perché è molto bravo sui testi, un po’ più duro di quanto non sia io, ma va bene, mi ricorda John, tosto fuori e morbido dentro, esattamente come lui. Scrivere con John era facile perché era pieno di talento, capitava a volte che facessimo da soli: c’era Strawberry fields forever che era tutta di John, o Yesterday che era completamente mia, ma insieme era fantastico». Non solo. Paul in quei giorni stava formando una nuova band, voleva tornare in tour e riprendere in mano il repertorio beatlesiano nei suoi concerti, cosa che per i fan era di fondamentale importanza.
Avremmo ascoltato per la prima volta in concerto i pezzi di Revolver, di Sgt.Pepper, Abbey Road, canzoni che non erano mai state eseguite dal vivo. Il prologo dell’incontro fu decisamente insolito, come se ci fosse un’accorta regia studiata per aumentare la suggestione della prima volta. Eravamo un drappello di giornalisti italiani e fummo prelevati da un pullman che ci avrebbe portato presso una destinazione segreta, neanche fossimo un gruppo di inviati al fronte. Studiando i cartelli ci rendemmo conto che ci stavamo dirigendo nell’East Sussex, a sud di Londra, nella profonda campagna inglese, fino a raggiungere una tenuta chiamata Rushlake Green, con un vasto parco, un laghetto ghiacciato e in fondo al viale una grande casa, arredata deliziosamente. Per quanto ne sapevamo poteva essere casa McCartney, ma ci spiegarono che non era esattamente così. Paul abitava da quelle parti, è vero, ma non lì, e quella tenuta era stata affittata appositamente per l’incontro. Lo vedemmo arrivare dalla finestra, elegante, sorridente, si mise a scherzare, a raccontare aneddoti, deliziando il drappello italiano.

E alla fine, assoluto privilegio, mi ritrovai da solo con sua Maestà.
La prima domanda riguardava un punto centrale e contraddittorio della sua carriera, ovvero un pezzo intitolato Give Ireland back to the Irish , che aveva pubblicato nel 1972 in netta contrapposizione alla sua fama di grande compositore disimpegnato.
Come mai per una volta e solo per quella volta?
«Non ho mai voluto realmente fare musica politica, altri, come Bob Dylan sono molto bravi a farlo, io no non sono mai stato interessato a mettere dichiarazioni nelle canzoni. Ma in quell’occasione era diverso.
Essendo cresciuto a Liverpool avevo amici irlandesi che ho senpre considerato come dei fratelli, anche il mio chitarrista era irlandese, e quando nel "sunday bloody sunday" l’esercito inglese sparò a dei manifestanti innocenti di Londonderry, uccidendo 14 persone, rimasi sconvolto. Per me l’esercito inglese era quello che aveva combattuto Hitler ma in quel momento uccideva dei fratelli.
Allora decisi di scrivere il pezzo, anche se tutti mi sconsigliavano di farlo, la Bbc infatti ha bandito il pezzo. Il presidente della Emi che allora era Joseph Lockwood mi disse: ma no Paul è una brutta mossa, è una situazione difficile. Io gli risposi, lo so bene. Fu assurdo perché il pezzo diventò numero uno in Irlanda e non in Inghilterra dove non fu promosso, e l’unico altro posto dove ebbe successo fu in Spagna chissà perchè, forse grazie ai separatisti Baschi, ma sono contento di averlo fatto.
Altrimenti posso scrivere un telegramma al primo ministro. Una volta l’ho fatto».
Sul serio, e per dire cosa?
«Mi ero reso conto che le levatrici sono pagate pochissimo, non so come sia in Italia. Mia madre faceva la levatrice, quando ero piccolo la vedevo uscire alle tre di notte sotto la neve in bicicletta perché arrivava la chiamata, e i bimbi per nascere non aspettano nessuno. Allora ho spedito un telegramma alla Thatcher, le ho scritto: attenta Maggie perché le levatrici potrebbero farti quello che hanno fatto i minatori. Non ho avuto risposta, ma le paghe sono migliorate un poco».
Sente una continuità tra quello che ha fatto con i Beatles e il lavoro successivo?
«Capisco che dall’esterno la percezione sia diversa, ma per me la musica è sempre stata una terapia. Da quando a 14 anni ho scritto il primo pezzo è come se non avessi mai finito. È ovvio che i Beatles siano stati il miglior gruppo con cui abbia lavorato.
Sarebbe stupido pensare diversamente, i Beatles sono stati uno dei migliori gruppi di sempre. Anche se all’epoca non sempre ce ne rendevamo conto.
Una volta George mi disse che Sgt. Pepper non gli piaceva granché, io dissi: non dire una cosa simile!
Molti anni dopo, a casa mia George si mise a suonare She’s leaving home (uno dei pezzi di Sgt.Pepper, ndr) e mi disse: che bella, chi l‘ha scritta? Lo guardai e dissi… well… indicandomi col dito. L’aveva riscoperta vent’anni dopo! Credo che i Beatles debbano imparare molto sulla musica dei Beatles».
Però la fama da "balladeer" romantico le è rimasta addosso…
«Sì, sono ritenuto più uno scrittore di ballate soft, ma non è proprio così, ho almeno due facce come tutti, adoro le melodie antiche, conosco pezzi più vecchi perché mi arrivavano da mio padre, adoro pezzi come After you’ve gone che è stata scritta negli anni Dieci… è la mia parte melodica, ma mi piace anche fare cose molto dure come Helter Skelter ».
La musica è ancora una terapia?
«Certamente, ora ho un mio studio, perché sono ricco e famoso, e se ho un day off molte volte mi metto a fare musica, esattamente per la terapia, solo per il piacere di farlo: accenno cose, le sviluppo, è come una magia, quella stessa che vedo nella pittura, quando vado alla Gare d’Orsay e vedo i quadri di Van Gogh, ti senti connesso con quello che vedi, l’arte crea un’illusione, e mi piace far parte di quella magia».
Non è mai stato tentato di fare il cantante e basta, magari interpretando vecchi classici?
«Mi piacerebbe farlo (lo ha poi fatto solo nel 2012 in un disco intitolato Kisses on the bottom, ndr) ma il fatto è che ho tanti interessi nella musica, vorrei fare un disco di standard, ma anche il più bel disco di sempre di musica per ballare, e vorrei fare anche un disco rap. Mio padre mi disse impara il piano, e quando gli chiesi il perché mi rispose: perché così sarai sempre invitato alle feste.
Lui in effetti era il ragazzo delle feste, gli dicevano sempre: ehi Jim, vai al piano… e lui cantava After you’ve gone e tante altre canzoni, io nello stesso modo potrei cantare
Let it be (e lo fa davvero, canticchiandola… ndr) in stile da crooner… E comunque una volta l’ho fatto, per un disco di cui esistono solo 12 copie».
Ma di cosa sta parlando, esiste una rarità del genere? E cosa può
mai essere?
«È stato un regalo a mia moglie Linda (che morì di cancro pochi mesi dopo il nostro incontro, ndr).
Suo padre è un editore musicale e quando lei era piccola, nel 1947, c’era un compositore di nome Jack Lawrence che voleva venire in visita per il weekend. Lui gli disse ok vieni, e porta una canzone per uno dei miei figli, sì proprio così, come se gli avesse detto porta una bottiglia di vino.
Lui si presentò con un pezzo chiamato Linda che poi diventò anche un successo. Allora l’ho registrata con una big band, per una volta ho fatto il cantante, per una sola volta, ne ho stampato 12 copie in vinile e gliele ho regalate».
Ammesso che lo sia, com’è cambiata la cultura rock?
«È ancora fondamentalmente intrattenimento ma credo abbia un senso molto più serio, dopo cose come All you need is love, vista in mondovisione, dopo Give peace a chance e Let it be i musicisti hanno preso coscienza del loro potere di fare del bene, di cambiare il modo di pensare della gente, e credo che questa sia la principale differenza rispetto agli anni passati. Un pezzo come Biko di Peter Gabriel è grande musica pop ma allo stesso tempo ha un contenuto molto serio, ci sono stati eventi come il Live Aid. È stato incredibile, anche se non era la prima volta, fu George Harrison a farlo per primo con il concerto per il Bangladesh, e sicuramente Geldof è cresciuto pensando a quello. I musicisti fanno più dei governi.
La forza sta nel fatto che ai musicisti puoi credere: la gente pensa che tu sia una persona reale, anche se ti vesti in modo eccentrico, in politica è diverso, l’ultimo presidente a cui la gente poteva credere forse è stato Abramo Lincoln, oggi guardano Reagan e al massimo pensano che sia un attore che recita molto bene la parte del presidente».
Per finire, può dirci la verità su quella leggenda denominata Paul is dead secondo la quale per alcuni lei sarebbe morto negli anni Sessanta e sostituito da un sosia?
«Ma certo, è tutto vero, ovviamente io sono un clone, anzi, ce ne sono 12 in giro… Fu a causa della copertina di Abbey Road, era un caldo giorno di agosto quando scattammo le foto sulle strisce pedonali e io avevo i sandali ai piedi, non significava assolutamente nulla, ma fecero subito un sacco di speculazioni, un deejay americano matto disse che era un segnale usato dalla mafia per dire che uno era morto».
Ma almeno su questo Paul ha mentito. In realtà i segni della leggenda "Paul is dead" i Beatles avevano cominciato a spargerli molto prima di Abbey Road. Un piccolo giallo nel giallo, ma del resto ci trovavamo in un posto sconosciuto, ufficialmente inesistente, e quindi tutto era possibile. Era davvero Paul quello con cui avevo parlato?