la Repubblica, 17 giugno 2020
Libia, la palude italiana
L’Italia confina via Canale di Sicilia con Turchia e Russia. Ankara s’è installata in Tripolitania, Mosca lo sta facendo soprattutto in Cirenaica. La prima con migliaia fra soldati regolari appoggiati da micidiali droni, mercenari privati e tagliagole siriani a libro paga del Qatar. Su “invito” del governo fantasma di al-Serraj, in quanto tale riconosciuto dall’Onu e verbalmente sostenuto dal nostro Paese. La seconda grazie a mercenari, “uomini verdi” in versione africana e Mig-29 senza insegne, in sintonia con l’Egitto, a sua volta tenuto in piedi dai generosi emolumenti emiratini. Quanto a noi, schieriamo duecentoventi uomini in missione sanitaria a Misurata oltre a una settantina per assistere la locale Guardia costiera, a titolo di potenziali bersagli del primo che passa. Il tutto, almeno fino a ieri, nella esibita indifferenza americana.
Già Obama aveva chiarito di non avere intenzione di impantanarsi nelle sabbie libiche, esortandoci senza ombra d’ironia ad assumere la leadership nella soluzione dell’insolubile puzzle libico. Trump è stato più spiccio sei mesi fa, invitando Conte a invadere e occupare i resti della Libia, certo memore dello sbarco giolittiano a Tripoli bel suol d’amore. Quanto agli apparati spionistici, diplomatici e militari a stelle e strisce, hanno vigilato a distanza, tenendosi alla larga dalla mischia, forse illusi che Haftar potesse risolvere la partita. E passare all’ordine del giorno. Risultato: le installazioni strategiche Usa presso Sigonella e Niscemi sono a pochi minuti di drone dagli avamposti nordafricani russi e turchi. I primi nemici conclamati di Washington, i secondi alleati pro forma. Talmente inaffidabili da flirtare con Mosca, in tattici giri di valzer cadenzati da duelli in punta (avvelenata) di fioretto, seguiti da più o meno camerateschi dopocena. Con ritardo, e restando al coperto, gli Stati Uniti stanno prendendo contromisure. Ad esempio, premono sui turchi per l’uso congiunto delle loro installazioni in Tripolitania e avvertono i russi che certe linee rosse, peraltro mobili, non vanno superate. Ovviamente lo sono.
In attesa che Tripoli turca (con Misurata) s’impadronisca di Sirte, se ci riuscirà, e che un capo credibile subentri a Haftar per rappresentare le milizie cirenaiche e gli interessi egiziani, la partita libica continua. I locali sono ridotti a pedoni dei rispettivi padroni turchi, russi e arabi. Saranno gli sponsor a spartirsi un giorno lontano le spoglie della ex Libia inventata dagli italiani. A quel punto rientreranno in gioco i cinesi. E vedremo se gli americani accetteranno nemici a due bracciate dalla Sicilia.
E noi? Abbiamo perso. Ma le sconfitte servono a imparare. Per esempio, che non esiste soluzione politica senza impegno militare, diretto o indiretto, sul campo o come credibile minaccia. Quando tutti sparano o sono pronti a farlo, la voce di chi vorrebbe solo parlare e distribuire mance si perde nel deserto. Economia e intelligence sono importanti, ma valgono se integrate in una strategia a 360 gradi.
Nella fattispecie, appoggiare il “nostro” al-Serraj senza poterlo o volerlo difendere militarmente – magari perché lo si considerava spacciato – ne ha fatto una testa di turco. Sarà Ankara a gestire i flussi migratori dalla Tripolitania. Il precedente siriano non ci rassicura.
Se proprio non vogliamo sostanziare la diplomazia con la forza, potremmo almeno evitare di impiegarla contro i nostri interessi, come abbiamo fatto malvolentieri nel 2011 per pura disciplina atlantica, non apprezzata dagli alleati. Siamo così finiti a rimorchio degli anglo-francesi, ovvero di chi voleva farci sgombrare la Libia. Così contribuendo a innescare la guerra, destinata a diventare internazionale. Virando la quarta sponda prima in terra di nessuno poi altrui. Ognuno ha i vicini che si merita.