Il Messaggero, 17 giugno 2020
Alessio Boni e la paternità
«Due cose mai avrei immaginato. Una è splendida: la paternità, arrivata a 53 anni ma sognata da tempo, e realizzata in pieno lockdown (Lorenzo è nato il 22 marzo, ndr), l’altra cosa è orribile. Ho fatto un video in buona fede. Se avessi un figlio o un padre cui è successo qualcosa del genere e sapessi che qualcuno dà voce a questa ignominia, sarei felice, e invece...». Invece, il video con cui Alessio Boni si è calato negli ultimi minuti di George Floyd, ripetendo il sempre più sofferto «non riesco a respirare, amico», è stato attaccato e accusato di strumentalizzazione. Tanto che l’attore ha preferito cancellarlo, nonostante i tantissimi post a suo favore. Mentre Boni spiega che non vuole alimentare polemiche, si sente il richiamo di Lorenzo alla mamma, la giornalista Nina Verdelli, per essere allattato. E il discorso cambia.
Fra dieci anni, che cosa racconterà a suo figlio di questi giorni?
«Che non basta che si fermi il mondo perché l’uomo cambi».
Non crede a chi dice che siamo diventati migliori?
«Lo vorrei. La Terra era tornata a respirare, sono entrate le meduse nel Canal Grande, i cerbiatti nelle piazze... Si potrebbe entrare nel mercato delle auto elettriche e questo cambierebbe la faccia dell’Occidente. Ma ci sarà sempre il danaro a comandare e credo che si ripartirà come prima. Ho molta paura che non sia bastata la pandemia a farci ragionare».
Lei in questi mesi è cambiato?
«Moltissimo. È nato Lorenzo e sono stato sempre con lui: gli ho tagliato il cordone, abbiamo vissuto in simbiosi, l’ho visto crescere ogni giorno. Ho imparato anche le sue sette tonalità di pianto. Comprendere la bambinitudine è un lavoro antropologico meraviglioso».
Si riflette anche sul lavoro?
«Mi fa credere ancora di più all’immaginifico. C’è una frase che nel mio Don Chisciotte dico a Sancho: Ricordati che tra tutte le qualità la più importante è il coraggio. Il coraggio di tornare a un sogno che può sembrare utopico è la resilienza necessaria in questo periodo. E coraggio è una parola che sta bene accanto a te, ai nonni, a un uomo di colore, a un bambino. È la paura che si tramuta in azione, ti fa reagire».
Professionalmente, qual è oggi il suo sogno?
«La regia cinematografica. In teatro ho già diretto Don Chisciotte e I duellanti, adesso la mia esigenza è un film».
Che storia vuole dirigere?
«Quella scritta da un grande autore, ma non posso anticipare altro».
Ha già un’idea dei tempi?
«Non ci sono mai certezze. Ma fino al prossimo maggio sono strapieno, fra Don Chisciotte e La compagnia del cigno, dal 6 luglio: dopo tre settimane di set, siamo stati costretti a fermarci».
La prima stagione ha avuto grandissimo successo. Le piace il suo Bastardo, direttore dell’orchestra di ragazzi?
«È fantastico, obiettivo, equo. E dice cose giuste. Certo, ha un carattere di merda».
Essere duri può risultare difficile, come maestri e come genitori.
«È più facile dare una pacca sulla schiena che dire la verità a brutto muso. C’è un bellissimo aforisma di Alda Merini: Chi ama troppo i propri figli spesso li sacrifica al proprio io. A tuo figlio devi lasciare la sua libertà e insegnargli ad andare dritto per la sua strada. Questo è ciò che spero di dare a Lorenzo, oltre a un bagaglio culturale ed etico».
Dai figli ai genitori: la sua famiglia è di Sarnico, provincia di Bergamo. Come ha vissuto la tragedia Covid-19?
«Ero a Milano, la mattina mia madre mi dava il bollettino: è morto questo amico, quest’altro zia Laura se n’è andata a 66 anni, in una bara che non abbiamo potuto salutare. Si ricorda tutti che cantavano sui balconi alle 18? Io non ce la facevo. Un amico di Bergamo mi ha raccontato di morti lasciati in casa per 3-4 giorni, mascherine che non arrivavano, respiratori che non c’erano. Io ogni giorno leggevo una poesia in video, per stare accanto a chi soffriva: una pillola di bello, come per George Floyd».
Il teatro uscirà cambiato dal lockdown?
«Il teatro esiste da 2.500 anni, e la gente ha sempre voglia di emozionarsi, di partecipare a questa che è una terapia di gruppo. Il video è un altro codice, non si può riprendere il teatro e metterlo sui social, perdi l’energia perché lo spettacolo è fatto per lo spettatore. Invece, un film lo puoi vedere al cinema ma anche su smartphone: le misure dello schermo cambiano, il codice resta lo stesso».
Il suo calendario da adesso in poi com’è?
«Ieri aabbiamo presentato al Festival di Napoli L’estate perduta, una ballata per Cesare Pavese. Poi saremo ad Arte Sella con le Variazioni Goldberg di Bach. E il 1° agosto a Montepulciano, con la regia di Marco Tullio Giordana, io e Michela Cescon interpretiamo il carteggio fra Ingeborg Bachmann e Hans Werner Henze: un amore di assoluta affinità elettiva, nonostante lui fosse omosessuale e lei no».
Tutti spettacoli in cui in scena siete pochissimi.
«Due o quattro. Per ripartire serenamente ci vuole una disposizione ministeriale».
A meno che non si reciti con il proprio partner.
«Già, ma la mia compagna non è un’attrice. Però abbiamo scritto insieme 66/67, spettacolo che potrebbe ripartire proprio da Bergamo».