Il Messaggero, 16 giugno 2020
La guerra dei dazi ricomincia
Di tutto si parla in Italia e nel mondo, ma non del crollo del commercio mondiale e della necessità di ricostruirlo con nuove regole, allorquando si sarà superata la fase più drammatica della pandemia. Drammatica è altresì la situazione istituzionale, con la crisi del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, e il disimpegno degli Stati Uniti a causa del conflitto incrociato con Europa e Cina proprio sul commercio mondiale. Tale conflitto ha per causa principale la posizione assunta dall’establishment Usa contro la Cina, attivando nei suoi confronti una nuova guerra fredda; mentre l’Europa a guida tedesca fa invece della Cina il nuovo punto di riferimento del commercio mondiale. La prova evidente e dolorosa di questa divisione è nel dramma dell’acciaio europeo, che viene colpito dai bassi prezzi di quello cinese che, nonostante la bassa qualità, rimbalza sui dazi nord-americani e mette in pericolo l’ industria siderurgica francese e italiana in primo luogo, via via sempre più insidiata, quando non sostituita, dai concorrenti indiani e turchi. Essi godono in patria di un regime protezionista, mentre esportano merci create con condizioni – inimmaginabili altrove – di bassi salari e di inquinamento. Le dimissioni del direttore del Wto Roberto Azevedo, un diplomatico brasiliano di indubbio prestigio, è un’ altra penosa conseguenza di ciò.
IL COLLASSO ANNUNCIATO
Le previsioni Wto di un collasso del commercio internazionale fino al 37% nel 2020, in dipendenza della durata della pandemia e delle politiche sanitarie di contrasto alla crisi, sono tanto più drammatiche quanto più le filiere produttive e di assemblaggio sono dislocate in diverse nazioni.
Fortunatamente le tendenze al cosiddetto reshoring, ossia alla rilocalizzazione sui territori nazionali di attività in precedenza trasferite all’estero, non è un fenomeno pandemico, ma è già in atto da anni. Se così non fosse le conseguenze sarebbero state ancor più drammatiche e inimmaginabili, soprattutto per i rifornimenti sanitari e alimentari. La pandemia ha solo accelerato un cambiamento di fase del commercio mondiale e dello sviluppo allargato dell’accumulazione capitalistica. Certo, gli effetti devastanti del virus sulle supply chain globali e sulla fornitura di componenti al manifatturiero sono stati rilevanti. In Cina l’80% del Pil è stato colpito dal virus. Tuttavia, un po’ ovunque le aziende si stanno fortunatamente riattrezzando per produrre localmente i componenti che negli ultimi dieci anni avevano allocato in Cina. Le delocalizzazioni oggi non sono più convenienti perché a cambiare è stata – ben prima della pandemia – la tecnologia, che ha ridotto l’incidenza del costo del lavoro e accresciuto in proporzione i costi di coordinamento e controllo; e soprattutto dell’incompletezza dei contratti, molto grave in una società intimamente corrotta come quella cinese. Sicché le imprese americane hanno investito in nuove tecnologie e gli ultimi anni di economia prospera hanno contribuito a migliorare le condizioni per riallocare sul territorio numerose produzioni. Di qui una ridefinizione degli scenari del commercio mondiale e soprattutto delle grandi catene del valore che interessano la manifattura e che il virus ha accelerato e non provocato. Sino a prima della pandemia i grandi processi di riallocazione avevano toccato le filiere del tessile, dell’abbigliamento, della moda in tutto il mondo e in Europa in particolare. Li hanno ora seguiti altri comparti come il medicale, di cui il Covid ha fatto risaltare il ruolo e la necessità (soprattutto in Usa, Uk e Francia) che i suoi attori imprenditoriali restino il più possibile non lontani dai fornitori del territorio sia per i costi che per la qualità dell’approvvigionamento. Per quel che riguarda l’automotive, i beni strumentali, l’elettronica e i prodotti in metallo, la loro incidenza sul totale delle rilocalizzazioni recenti è stata pari circa al 40% e dovrebbe continuare. I mercati asiatici rimarranno comunque di riferimento dai punti di vista produttivo e distributivo, nonostante l’approssimarsi della crisi strutturale cinese che cambierà di nuovo il mondo.
È un immenso processo di crisi esogena che ha colpito sia la domanda sia l’offerta, il mondo della produzione e dei servizi alle persone e alle imprese. Queste ultime non hanno necessità solo di stimoli e sgravi fiscali ma, in un contesto di interventi strutturali di riallocazione e di nuovi investimenti, di stock di capitale fisso per aumentare la produttività. Gli Usa hanno toccato il picco mondiale di questi interventi di reshoring con 1.000 operazioni di ritorno a casa dal 2004 a oggi, creando 750.000 nuovi posti di lavoro complessivi e iniziando a ricreare infrastrutture efficienti, così elevando il livello di produttività totale, unitamente a investimenti in ricerca e sviluppo e miglioramento della qualità del capitale umano. Questo processo ha confermato le teorie dell’economia circolare, che pongono al centro la convinzione che le produzioni delocalizzate non possono competere per qualità con quelle provenienti da territori forti e ben localizzati a corona delle industrie e dei servizi che riforniscono.
Il sistema di produzione internazionale fondato su un’elevata frammentazione produttiva che ha originato le cosiddette catene globali del valore con mega-filiere di imprese di nazioni diverse, si è così disvelato fragile. L’export totale di beni intermedi prodotti in Cina è salito dal 24% nel 2002 al 32% nel 2018 e se si considera che gli scambi di beni intermedi formano sempre circa il 50% del commercio mondiale, la flessione si farà sempre più rilevante e il divario di crescita tra produzione e commercio mondiale si va praticamente annullando. Ciò sia per il rallentamento della crescita Ue, afflitta da deflazione secolare, sia della Cina, avviata a una crisi della sua economia già fragile e che sarà devastante.
La Germania insieme alle nazioni scandinavo-baltiche, hanno di fatto perseguito anch’esse il processo nordamericano grazie al loro basso tasso di indebitamento interno. Politica che non ha potuto perseguire soprattutto la Francia, dotata di una base industriale poco agile e intessuta del colbertismo funzionalistico che la frena nella trasformazione prima evocata degli Usa.
L’ERRORE DELLA CINA NEL WTO
Le nazioni che sono la sostanza economica del mondo, ossia Stati Uniti, Germania, Francia, financo la Cina, pur in grave crisi politico-economica, ma potenza demografica così come l’ India, si muovono tuttavia, dando segni di cambiamento. Questo provoca contrasti intra- europei, mancando l’ Ue di una costituzione e scatenandosi anche rispetto al commercio mondiale, la concorrenza tra nazioni. Tra Francia e Germania che si combattono con alleanze temporanee all’interno dell’Europa e tra Usa e Germania, Francia e Russia nel mondo intero. È necessario, per questo, ricostruire al più presto un condiviso sistema di regole del commercio mondiale per impedire nuove crisi. Ma si debbono superare gli errori compiuti con l’ ammissione della Cina nel Wto nel 2001, mentre la Russia vi fu ammessa solo nel 2011, incoraggiandone così le tendenze espansionistiche e di converso il potere della Cina in forma esponenziale. Una ammissione indiscriminata, quella cinese, non condotta secondo le regole della buona governance.
Sono queste regole di cui abbiamo bisogno nel commercio mondiale. Solo la diplomazia può ricostruirle su nuove basi. Ricordando, però, sempre, che la prima regola sarà superare l’ ostacolo che dal 1995 (nascita del Wto) impedisce la stipulazione di un trattato multilaterale di commercio, dando vita a scarsi trattati plurinazionali, come il Mercosur. La causa di ciò è l’ esistenza concorrenziale di tre potenze mondiali che sono nel contempo sia potenze agricole sia potenze industriali: gli Usa, la Francia e l’India. Bisognerebbe sempre tenerla a mente, quella concorrenza tra industriali ed agricoltori, per creare regole più funzionali al commercio mondiale.