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 2020  giugno 16 Martedì calendario

Le scuse di Anna Wintour

Crudele come la Contessa Dracula, imperscrutabile come l’idolo atzeco Atlatonin, temuta come Fredegonda regina dei Franchi, osannata come la dea Kali, era impensabile che sarebbe arrivato un giorno in cui lei, Anna Wintour, marmorizzata dietro gli enormi occhiali neri, avrebbe chiesto scusa: non a tutto il mondo da lei tiranneggiato con indifferenza glaciale, ma a una parte di esso, quello infuocato degli afroamericani e della folla dei loro fratelli di altro colore, soprattutto bianchi.
Mentre i dipendenti di Vogue America si aggiravano curvi e rassegnati nella redazione di New York cercando di scansare la direttrice e le sue furie, identiche, dicono, a quelle di Miranda Priestley di Il diavolo veste Prada, negli Stati Uniti e poi quasi ovunque, succedeva di tutto. Un uomo di colore veniva soffocato e ammazzato da un poliziotto bianco, altri neri venivano uccisi da altri poliziotti bianchi, bianchi e neri si ribellavano, riempiendo le città di manifestazioni che mandavano in bestia il presidente che – fosse per lui avrebbe mandato l’esercito a far fuori tutti; il mensile Bazaar, rivale di Vogue veniva affidato a una direttrice di colore; intanto si battevano il petto, dimettendosi, il direttore bianco del lieto Bon Appetit, per aver borbottato al personale di colore, e molti altri bianchi dell’editoria.
La scintilla del pentimento della Wintour è stata l’uscita di The Chiffon Trenches, le memorie di André Leon Talley, direttore creativo di Vogue sino a qualche tempesta con la signora. È vero che oggi chiunque scriva un libro trova un editore, ma se ogni persona in rotta col superiore ne facesse una storia? Però Talley è un’altra cosa: definito con una certa approssimazione una leggenda, alle nostre sfilate soggioga tutti con il suo fastoso abbigliamento tipo Hailé Selassié. Credo che non ci sia nessun adepto della moda a non avere già in casa anche in Italia il suo libro. Ma cosa può aver indotto questa lady inglese che per decenni, e pure ora a 71 anni, ha imposto alle sue seguaci un aspetto senza sorriso, secco e lussuoso, a scusarsi? Appunto il momento, la coincidenza tra la morte di George Floyd e le rivelazioni dell’astuto Talley: il tutto esacerbato dal drammatico momento in cui versa il mondo della moda.
Talley ha rivelato cose già sussurrate da altre vittime, ma mai malvagiamente documentate: «Impossibile lavorare con lei. Incapace di umana gentilezza. Non più di 8 minuti per ogni riunione di redazione, se no c’è tempesta». E poi il fatto che l’ha obbligato ad andare in una clinica a dimagrire, che lo pagava una miseria e che c’è tantissima gente che ha lavorato per lei soffrendo di gravi ferite emotive.
Poteva far finta di niente come sempre, la lady che per 38 anni ha regnato su Vogue America, su Vogue mondiale, su tutta la moda, dalla alta alla bassissima? Non adesso, e infatti ha come si dice voltato la frittata: cattiva pare con tutti, si è presa solo la colpa massima di oggi, quella di eventuali negligenze verso gli afroamericani. Quindi ecco: «Voglio esprimere la mia vicinanza a chiunque stia attraversando disperazione, dolore e rabbia. E voglio dirlo specialmente agli afroamericani della mia redazione. So che Vogue non ha trovato modo di dare spazio agli afroamericani. Abbiamo commesso errori anche pubblicando immagini e storie che potevano essere crudeli e intolleranti. Mi assumo la piena responsabilità» Non si è dimessa, non è stata licenziata, almeno per ora: anzi il suo addio è stato smentito dall’editore. Ma il suo trono non è più quello del pavone provvisto di Ko-i-nur, né lo sarà se eventualmente qualcuno la sostituirà. La moda italiana spendeva milioni per fare pubblicità sul nobile mensile e poi si riteneva massimamente fortunata se la signora la nobilitava apparendo alle sfilate anche se solo per pochi minuti, sfingea, con tutti i fotografi ai suoi piedi. Se lei indossava un loro capo se ne vendevano centinaia di copie: l’immenso potere le consentiva di non ricambiare anche solo con un cenno tutto il denaro che arrivava al giornale da tutti i Paesi, e soprattutto dal nostro.
Ma le cose cambiano. La moda sta cercando un’altra strada di diffusione, che non sia più l’impero Wintour, ma un modo più semplice, diretto: gli influencer, i giornali on line dall’immenso pubblico. E altro che sta ancora studiando.