Affari&Finanza, 15 giugno 2020
La finanza cancella la pandemia
Alla fine della scorsa settimana gli indici azionari di Wall Street hanno recuperato quasi tutte le perdite e sono tornati dov’erano alla fine del 2019, cioè prima dell’allarme coronavirus e dei lockdown. Per le Borse americane la pandemia economica non esiste quasi più, le sue tracce sono praticamente cancellate. Gli investitori pensano davvero che la crisi stia già finendo? Il divario tra la finanza e l’economia reale (20 milioni di disoccupati, un’ecatombe di aziende fallite) non è mai stato così stridente. La reazione più comune consiste nel demonizzare la finanza, cercando tutte le spiegazioni “patologiche” per cui le Borse non riflettono l’impoverimento di massa. Ce ne sono, naturalmente: dal trionfo di Big Tech che in questa crisi ha avuto un boom di fatturato e utili; al ruolo della Federal Reserve che sta inondando l’America di liquidità con un multiplo delle operazioni messe in atto nel 2008-2009. Seguendo questa logica, i mercati azionari inseguono pochi vincitori ma non ci stanno dicendo nulla di significativo sull’economia reale.
Eppure quest’ottica non è convincente. Anche sull’andamento dell’economia reale infatti bisogna distinguere tra la catastrofe immediata e le prospettive del secondo semestre (probabilmente gli investitori guardano più al futuro che al presente); bisogna inoltre scrutare le differenze di prospettiva tra Stati Uniti, Cina e resto dell’Asia, Europa. Non tutti gli scenari sono identici. Non tutti i segni meno si equivalgono. Secondo la Banca Mondiale peggio di tutti andranno i paesi emergenti dell’America Latina con meno 7,2% del Pil nel 2020. Meno peggio di tutti faranno i paesi emergenti dell’Asia con meno 0,5%. Tenuto conto che la previsione per l’intera economia mondiale è meno 5,2% questo significa che l’Asia ne esce rafforzata.
La dinamiche della decrescita
Chi decresce meno vince. Un dato tutt’altro che scontato visto che le economie asiatiche sono dipendenti dalle esportazioni. Però si afferma una dinamica regionale virtuosa, per cui sono relativamente meno penalizzate, avendo i propri mercati di sbocco nell’Asia stessa. Nella performance delle Borse americane un posto speciale spetta al Nasdaq. Il listino dove si concentrano più aziende tecnologiche ha fatto ancora meglio degli altri. Inoltre dall’inizio del 2020 il Nasdaq ha sorpassato il New York Stock Exchange per il valore dei collocamenti. Sul Nasdaq si sono quotate nuove società con una capitalizzazione complessiva di 12,2 miliardi di dollari contro 10,9 miliardi per le matricole che hanno fatto il proprio ingresso al NYSE. In Borsa qualche volta sbaglia anche l’Oracolo di Omaha, Warren Buffett. Considerato uno degli investitori più abili del mondo, il fondatore di Berkshire Hathaway è noto anche per i suoi nervi saldi. Comprò a man bassa titoli bancari nella fase di panico del 2008, e ben gliene incolse. Stavolta invece sembra aver ecceduto nel pessimismo. È stato Trump a sbeffeggiarlo perché ha venduto i titoli delle compagnie aeree che aveva in portafoglio, e così si è perso una ripresa spettacolare in Borsa: +75% per questo settore. Colpisce invece il comportamento dei piccoli azionisti, i più intraprendenti e spregiudicati in Borsa. A comprare titoli delle società in bancarotta come Hertz e JC Penney puntando su una loro ripresa non sono i soliti fondi specializzati, bensì acquirenti al dettaglio, piccoli risparmiatori. Forse pentiti del loro ecessivo pessimismo nell’altra crisi, quella del 2008-2009, dove furono i grandi investitori come Warren Buffett a fare grossi affari comprando ai minimi.
I piccoli risparmiatori che sono stati più audaci di Buffett devono aver fiducia sui segnali anticipatori di una ripresa nella seconda metà dell’anno, che non mancano: il numero di nuove richieste per le indennità di disoccupazione è nuovamente calato anche la scorsa settimana. Il sondaggio mensile del Wall Street Journal tra gli economisti indica che il 68% prevede una ripresa nel terzo trimestre; il che non impedisce che il risultato finale del 2020 rimarrà pesantemente negativo, con un Pil ridotto del 5,9% secondo lo stesso sondaggio. Il cauto ottimismo è condiviso dal chief executive di Morgan Stanley, James Gorman: “Il peggio è alle spalle. Sul prossimo trimestre mi sento molto più ottimista che pessimista”. Tra gli indicatori che lo guidano, il chief executive di Morgan Stanley cita il netto miglioramento di solvibilità dei bond emessi dalle aziende con rating bassi. Più ancora dei pareri di questo o quello, vale la pena osservare i dati sulla spesa dei consumatori americani raccolti dalla Mastercard: siamo passati da un mese di aprile a meno14% sull’anno prima, ad un mese di maggio a meno 5,6%. E mezza America non aveva tolto il lockdown fino ai primi di giugno. Dunque almeno in Asia e negli Stati Uniti ci sono i primi segnali di un’inversione di tendenza. Il comportamento del consumatore americano alla riapertura dei negozi e grandi magazzini è più audace e vivace di quel che si credeva: sulla paura prevale la voglia di riprendersi una vita normale.
I vincitori di Wall Street
Tra i settori vincenti a Wall Street ricordo che oltre all’economia digitale c’è Big Pharma. L’eccitazione è palpabile per la pioggia di finanziamenti che arrivano a chi partecipa alle ricerche per sconfiggere il coronavirus. Qualcuno ha già vinto la “corsa all’oro” del vaccino: un sottobosco d’intermediari finanziari, hedge fund, che hanno comprato opzioni sui brevetti dai laboratori di ricerca e li hanno rivenduti alle multinazionali farmaceutiche. Un business di pura speculazione finanziaria, sovvenzionato dal contribuente americano. Un esempio è la Ridgeback Biotherapeutics, che nonostante il nome non ha alcun laboratorio di ricerca, è solo un intermediario. Ha comprato a scatola chiuso una cura anti-coronavirus che la Emory University ha elaborato grazie a finanziamenti federali, e l’ha rivenduta alla Merck.
Patologie quindi non ne mancano. Per esempio, continua lo scandalo delle imprese che tagliano i salari per i dipendenti ma aumentano le paghe dei top manager… pur annunciando il contrario. Il Financial Times pubblica questi dati da un’indagine su 554 aziende americane che hanno annunciato sacrifici a carico dei propri chief executive: il 52% di loro in realtà hanno ottenuto maggiori benefici sotto forma di azioni e stock option rispetto al 2019.
A Pechino non hanno mai avuto parametri di Maastricht o Patto di Stabilità, e la politica di bilancio è sempre stata molto più libera, cioè espansiva: vicina al modello americano anziché a quello europeo. Ma il livello del deficit pubblico cinese potrebbe essere molto superiore a quanto crediamo, o a quanto il governo cinese vuole farci sapere. Un’acuta analisi della banca Natixis cerca di aggregare ai dati ufficiali tutto il deficit pubblico generato dalle province, che per le loro dimensioni sono l’equivalente di interi Stati Usa o addirittura di intere nazioni europee. Unendo questi deficit sommersi a quello ufficiale la stima della Natixis arriva ad un totale del deficit pubblico cinese pari al 17% del Pil nel 2020. Come manovra di sostegno alla crescita, equivale alle dimensioni di quella americana. E anche questa è una buona notizia perché riguarda il carburante per la ripresa interna della seconda economia mondiale. L’ottimismo può diradarsi subito se arriva la seconda ondata di contagi. Non è rassicurante osservare gli ultimi dati sull’aumento dei malati di coronavirus in Texas, Florida e California. I numeri assoluti sono ancora molto bassi in quei tre Stati, nulla di paragonabile a quello che fu il picco massimo di New York. Però si tratta degli altri tre Stati maggiori, che con New York concentrano una quota molto alta della popolazione e della ricchezza. L’evoluzione del loro bollettino sanitario va tenuta d’occhio.