C’erano a portata di mano la Magnani, Visconti e Patroni Griffi, magari anche Orson Welles, o Jean-Luc Godard che mi fece una scenata insofferente. Adesso col motorino sono anche arrivato vicino al bar che è a destra guardando il Pantheon: lì parlavo per ore e ore di progetti e amori con una generazione più giovane della mia, con Ghini, Fantastichini, Bentivoglio, Scattini, Rubini, Valsecchi, Nuti, Veronesi, D’Alatri.
E ho fatto tappa all’Hemingway, ancora non riaperto. Il tour è continuato davanti a cinema scomparsi, Augustus, Rialto. La sala che più di tutte mi manca è quella del Teatro Valle, un gioiello dimenticato e bistrattato nel cuore del centro storico, senza alcuna volontà di restaurarlo».
Una mappa di Roma di questo genere riflette il suo alto tasso di socievolezza, Haber. Ma questa sua vocazione all’amicizia, all’accumulo, e alla logorrea, doti che si sono poi tradotte in più di 120 film e più di 50 spettacoli, avrà pure, in lei che è una solida quercia di 73 anni, una radice da cercare nelle origini, nella famiglia, negli anni della crescita. Ne parliamo?
«Ci provo. Mio padre, ebreo romeno, conosce mamma a Bologna, se ne innamora, la sposa.
Nasco io, la nostra famiglia si trasferisce in Israele a casa dei nonni i quali, molto ortodossi, fanno di tutto perché papà prenda le distanza da lei cattolica, e mia madre reagisce tornando in Italia con me, suscitando la disperazione di lui, tant’è che quando un anno dopo torniamo a Tel Aviv lei è accolta come una regina. A Jaffa, in una recita nel collegio dei Frères francesi, da bambino a me scappa la pipì in scena, e inzacchero i piedi del preside. Dai miei 9 ai miei 17 facciamo marcia indietro e ci stabiliamo a Verona ma io sono presto espulso da tutte le scuole del Veneto perché mi ribello a ogni regola e ne combino di tutti i colori.
Credo che papà abbia pagato qualcuno per il mio pezzo di carta della terza media. Poi veniamo a Roma, dove lui la sfanga con più lavori. Primo domicilio, accanto a via Donna Olimpia. Dove mamma la notte m’aspetta fumando alla finestra le Dubek fino a che non rientro. Faccio sempre pratica di irrequietezza. Vengo su come un’erba cattiva amata però da tutti».
Ma a 17 anni dove scatta l’attrazione fatale per il mondo della scena?
«M’avevano scosso due esperienze di spettatore. Vedo “Chi ha paura di Virginia Woolf?” con Sarah Ferrati, Enrico Maria Salerno e Umberto Orsini, e poi “I lunatici” con regia di Luca Ronconi per Sergio Fantoni e Valentina Fortunato. M’iscrivo alle lezioni di Alessandro Fersen, faccio provini battaglieri, telefono, tallono, mi candido ovunque. Mi presentano a Bellocchio, e riesco a entrare ne “La Cina è vicina”. Per indole sono esaltato da tutti i fenomeni del teatro di ricerca, e conosco Vasilicò, Ricci, Perlini, Nanni, ma anche il Living Theatre, e il fenomeno a sé Carmelo Bene, che poi mi vorrà ne “La cena delle beffe” con Gigi Proietti e Lydia Mancinelli. Lego pure con Leo e Perla. Ma se pure mi fiondo nelle cantine, e entro in confidenza con tanti artisti giovani, di fatto lavoro un po’ sì e un po’ no. Finché una sera...».
Una sera cosa...?
«Mia madre mi sente come un orso in gabbia. Allora si mette nel foyer del Teatro Centrale, dove io interpreto il Mago Celionati ne “La principessa Brambilla” con Manuela Kustermann (detta Dusermann) reduce dal successo di “Risveglio di primavera” alla Fede. Mamma s’apposta accanto a Gassman e alla Vitti che dicono “Questo Haber ha talento”. Da quella volta non mi mormorerà più addosso. Capisce che fare l’attore è il mio destino».
In quali altre abitazioni ha recitato il ruolo di cittadino romano?
«Per quasi un decennio ho vissuto in un secondo indirizzo, a via Quattro Venti, poi per tre anni sono stato con Giuliana De Sio in una casa a via Maurolico, zona viale Marconi, quindi ho comprato un penultimo piano in via Felice Cavallotti a Monteverde, e l’ultima e attuale postazione è un immobile a un passo da piazza Trilussa, su lungotevere Raffaello Sanzio, con vetri doppi che filtrano la movida, attraverso i quali vedo il Tevere, uno spettacolo d’acqua».
Ha un rammarico per uno spettacolo, per un film che non ha fatto?
«Un giorno andai a un appuntamento con Vittorio De Sica. Mi avevano vociferato che forse potevo fare Giorgio, il protagonista del film “Il giardino dei Finzi Contini” dal romanzo di Bassani. Mi vede, non ho il colore degli occhi che sta cercando (per la parte prese Capolicchio, davvero bravo), e mi dice “Che bella faccia, Haber. Le offro il ruolo di Bruno Lattes”. Io ci resto male. Rifiuto.
Grande errore. Oggi nella mia filmografia potevo vantare una sua regia».
Dopo una ventina di repliche il Covid ha interrotto lo spettacolo in cui lei è attesissimo, “Morte di un commesso viaggiatore” di Miller con regia di Leo Muscato, prodotto da Goldenart e Stabili del Veneto e di Bolzano, che a Roma vedremo nella prossima stagione. Per fare Willy Loman non ha più la sua proverbiale barba...
«Ora ce l’ho di nuovo, anche lunga da punkabestia. Me la taglio appena serve. “Papà, quando non la porti hai dieci anni di meno”, m’ha detto mia figlia, che ha cazzimme, che ha già recitato in un film indipendente. Lei vive con la mamma, mia moglie, Antonella Bavaro, una brava attrice. La barba mi servirà anche nella partecipazione al film di Michele Placido su Caravaggio, dove sono un accattone truffatore ladruncolo somigliante alla figura del quadro “Crocifissione di San Pietro”».
Altri appuntamenti?
«Un film con Pupi Avati. E ho preso parte con Valentina Perella a un corto di Alessio Di Cosimo, “Andrà come andrà”, ne ho realizzato uno io sugli abusi, “Il gioco”, e ne ho in programma uno inquietante. Nei giorni di lockdown ho cominciato a raccontare una mia biografia a Mirko Capozzoli, mentre Fabrizio Corallo credo chieda piccoli ritratti di me a una trentina di persone. Forse verrò fuori buffone, incontenibile, uno che recita anche nella vita, tipo Ugo Tognazzi un tempo».