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 2020  giugno 15 Lunedì calendario

Intervista a Tiziano Ferro

Dallo schermo arriva un sorriso radioso in cui c’è tutta l’energia compressa di chi in questi giorni avrebbe dovuto fare sfracelli dal vivo, ma ha trovato tante ragioni per vivere al meglio la svolta epocale che stiamo vivendo. Dietro s’intravede la sua casa di Los Angeles, ma la prima cosa che ci tiene a sottolineare è una porta su cui ci sono quattro piccoli poster. Sono le foto di Giuni Russo, Califano, Mango e Fred Bongusto, «come dire tiè… ricordatevi che qui comando io e la musica è questa», spiega Tiziano Ferro, che nel nome porta il segno di una antica bellezza d’arte, ma che è anche l’anagramma di “notizia”, e soprattutto fa rima con “italiano”.

Quelle foto sono da collegare a dei rimpianti?
«Soprattutto Califano, uno dei miei idoli. In un’intervista rilasciata non molto tempo prima di morire gli chiesero cosa pensasse dei giovani, e lui fece il mio nome, disse che ero “gajardo”. La cosa che mi ha spezzato il cuore è che non sono mai riuscito a incontrarlo. In questi giorni mi sono organizzato una palestrina in casa per fare qualcosa, e faccio ginnastica con in cuffia le sue canzoni, lo so che sembra assurdo, ma per me funziona, l’ho sempre adorato, mi faceva stringere il cuore la fragilità che leggevo dietro quella scorza».
Com’è stato vivere il lockdown a Los Angeles?
«Prima cosa, bisogna ricordare che la California non è l’America. Quando ancora Trump diceva: non è un problema, è una cospirazione, qui se ne sono fregati e hanno chiuso tutto, subito, da un giorno all’altro era veramente deserto. E anche la fase due è molto prudenziale, dopodomani riaprono le palestre ma ho visto le restrizioni, sono talmente tante che ti passa la voglia di andarci. La cosa che mi ha più colpito in assoluto è stata la percezione che tutti in tutto il mondo stessero vivendo lo stesso problema nello stesso momento. È una cosa senza precedenti e spero che di questo qualcosa ci rimanga».
Ha scritto un mare di canzoni?
«Non proprio, perché non scrivo più tanto ma scrivo meglio, a vent’anni se ti viene una frase che funziona ci fai subito un pezzo. Ora quando ho un’intuizione la metto da parte e aspetto di avere anche il resto, all’altezza».
E c’è stato anche un tour bloccato…
«È un argomento spinoso sul quale ho involontariamente sollevato fin troppe polemiche, alcuni non hanno voluto capire che non parlavo per me. Visto che non ci arrivavano direttive eravamo in una situazione difficile. Non potevo non continuare a lavorare sul tour, ma tutti eravamo certi che non si sarebbe fatto, quindi lavoravamo a metà, con poco entusiasmo, perdendo soldi a vuoto. Solo ora grazie al decreto ufficiale abbiamo potuto attivare protezioni per i lavoratori, come la cassa integrazione».
Poi però quando serve ci si ricorda che la musica è un enorme patrimonio del nostro paese…
«In America hanno un modo di dire che da noi fa brutto, non è elegante, dicono: arriva con i soldi in bocca, però molti si dimenticano che quando c’è bisogno ci chiedono di impegnarci, succede che magari mettiamo insieme 8 milioni di euro, e sia chiaro, lo facciamo volentieri, ma poi non si può dimenticare che la musica è lavoro, per tantissime persone».
La sua musica è apparsa insieme agli anni duemila. Si sente un po’ figlio del millennio?
«Ho cominciato un po’ sghembo nel 2001, e comunque ho compiuto vent’anni nel 2000, 40 nel 2020, anzi li ho compiuti in piena quarantena, è una cosa romantica, non l’ho mai pensata come l’hai detta tu però ora che me la spieghi così è bella perché è quello che mi succede quando vado a vedere la discografia di uno che mi piace. Con un po’ di sana presunzione penso sia vero e mi fa piacere. Jovanotti, quando abbiamo realizzato la canzone insieme (il nuovo singolo Balla per me, ndr) mi ha detto una cosa incredibile: “Sei un classico, io con te comunque avrei avuto piacere a lavorare, perché quando uno ha venti venticinque canzoni che tutti conoscono, vuol dire che è un classico, ti devi rassegnare”. Io non mi ero mai visto così, mi ha fatto pensare, allora qualche giorno dopo è successa una cosa buffa, mi sono trovato in taxi, e l’autista mi dice: ma sei Tiziano Ferro? Io annuisco e a quel punto gli chiedo se conosce le mie canzoni. Lui dice: non saprei, no, non le conosco. Allora mi accanisco e comincio a fare l’elenco: Sere nere? Sì, certo, ah è tua? Perdono? Ma sì, la conosco. Non me lo so spiegare? Come no, l’ho pure dedicata a mia moglie. Alla fine ha detto, scusa mi sono sbagliato, non pensavo. Forse è questo essere un classico? Quando conoscono le mie canzoni a prescindere da me?».
Alla fine ha capito qualcosa in più dei segreti della musica?
«Speravo, credevo di aver capito qualcosa di questo labirinto, poi è successo un cataclisma, potrei scriverci un trattato, è vero che la vendita della musica era già andata in crisi, però coi sistemi digitali è andato tutto giù, perché hanno permesso all’inizio di ascoltare con dei profili gratuiti la musica, poi gli streaming sono entrati nelle classifiche che registravano le vendite dei dischi. Questo ha falsato tutto. Se ora tu ascolti mille volte di seguito un singolo brano alla fine entra nel conteggio come fosse un album, ma concettualmente è sbagliato, ora finalmente si conteggiano solo gli streaming a pagamento, ma non funziona lo stesso, è solo un metro di misura sbagliato e altera la percezione che abbiamo della musica».
E come si reagisce a questo cataclisma?
«Un giorno sono andato all’Hollywood bowl, che quest’anno tra l’altro è stato chiuso per la prima volta in quarant’anni, e sono andato a vedere un signore che si chiama Rod Stewart e lì improvvisamente ho capito. Mi sono detto: è vero che la musica è cambiata, ma in un mondo in cui siamo abituati alla musica scaricata, magari gratis, allora l’evento live è diventato il disco di platino. Magari Rod Stewart non sarà mai tra i primi 5 su Spotify, ma lì in due sere ha fatto quarantamila spettatori. Ho proprio sentito Rod Stewart che mi diceva: Tiziano, apri gli occhi».
In questo momento di confusione mediatica e di fake news è stato vittima di falsi?
«No direi di no, ma offese sì, e su questa cosa sono molto netto, tolleranza zero. Il fatto che tu possa offendere non è libertà, è essere idioti, e non me frega se qualcuno è contrario. Esistono dei controlli e dovrebbero essere ancora più effettivi, ma una cosa è certa: a casa mia, o sei gentile, educato oppure fuori, hai milioni di altri posti dove puoi criticare e insultare, ma non a casa mia».
Tempo fa ha parlato del desiderio di poter avere un figlio. Ci sta provando?
«Ancora no, sinceramente, e ovviamente questo casino ha un po’ fermato le cose, però sì, è un bisogno molto forte, e in questo momento mio marito Victor lo vuole ancora di più, forse perché sta per compiere 55 anni. Qui in America la situazione è relativamente più facile, o meglio ci sono diverse soluzioni, come il cosiddetto fostering, ovvero la possibilità di occuparti per un certo tempo di un bimbo, anche senza una vera e propria adozione. Ci sono istituzioni molto serie e molto rigide che verificano con la massima attenzione. Da solo non lo farei, ma con Victor c’è una sensazione di tranquillità».
Davvero non è uscita fuori una canzone legata a questo periodo di isolamento?
«A dire il vero una canzone c’è, non so dove finirà e che strada prenderà, ma c’è, mi è capitato di incontrarmi, virtualmente ovvio, con Motta, un autore che mi piace tantissimo e abbiamo scritto una cosa bella, molto all’avanguardia, una follia ispirata dal senso di clausura che abbiamo vissuto, davvero non so che forma prenderà ma c’è e sta lì. Vedremo. Di sicuro scrivere per gli altri o con gli altri mi fa sentire più libero, quando è per me sento di perdere un po’ di libertà, con gli altri posso vivere quel margine di estremismo che avevo e non ho mai perso del tutto».