la Repubblica, 30 marzo 2020
Da "Breviario per un confuso presente" di Corrado Augias (Einaudi)
Quale posto avrà il coronavirus dell’anno 2020 nella lunghissima storia delle pestilenze? Le conseguenze d’una pestilenza sono vaste, investono ogni aspetto della vita, così sono state rappresentate. Mettiamo però da parte i testi più antichi, le leggende orientali, l’Apocalisse, il racconto di Omero nell’Iliade, consideriamo Edipo. L’infelice re s’aggira per la città di Tebe colpita da una pestilenza di cui nessuno sa spiegare le cause. Sarà lui a dover sciogliere l’ansia che opprime la città, lui che ha già risolto l’enigma della Sfinge. Di chi la colpa per un flagello che sta uccidendo tanti innocenti? L’indovino rivela che la peste è arrivata perché a Tebe è presente l’assassino del precedente monarca, Laio. Su questa base Edipo comincia la sua indagine al termine della quale scopre con orrore d’essere lui il colpevole perché è stato lui ad uccidere, inconsapevole, il re Laio, suo padre, e a giacere con Giocasta, ignorando che quella donna era sua madre.
Nel grumo di tabù violati racchiusi in questo mito, gioca un ruolo di primo piano la misteriosa malattia sterminatrice. La peste colpisce all’improvviso. Non c’era e d’improvviso appare; risparmia o uccide per oscuri motivi, si può guarire o morire secondo criteri che la ragione umana non coglie, dunque dettati dal capriccio, dalla collera di un dio.
Anche in epoca classica però, qualcuno aveva tentato una spiegazione razionale: il filosofo Tito Lucrezio Caro. Nel finale del sesto libro del poema Sulla Natura delle cose (De rerum natura), descrive la peste di Atene attribuendola a cause naturali. Miasmi che circolano nell’atmosfera o che salgono dalla terra imputridita per eccesso d’acqua o di sole. Le cognizioni scientifiche sono approssimative ma l’intento razionale, quel suo scrutare l’atmosfera e il suolo fa sì che Lucrezio compia un salto mentale di secoli proiettandosi verso l’illuminismo.
La terribile peste del Trecento di cui parla Boccaccio si manifestava con linfonodi infiammati e ingrossati nelle zone inguinale e ascellare: "e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide [...] certissimo indizio d’una futura morte". Boccaccio sottolinea però anche le conseguenze sociali della pestilenza: "Era con siffatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli quasi loro non fossero".
Un destino diventato di colpo fragile e incerto diffonde un panico capace di cancellare ogni altro sentimento. Con un salto di cinque secoli scopriamo che la peste del ’600 raccontata da Manzoni nel suo romanzo causa un’analoga dissoluzione dei legami. Nel capitolo XXXIV compare un episodio molto significativo. Renzo, entrato in città, vuol chiedere di un certo indirizzo ad un passante; questi però vedendolo avvicinarsi reagisce così: "Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone, e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: - via! via! via!".
La conclusione dell’episodio è ancora più illuminante; il sospettoso borghese, rientrato in famiglia, descrive così l’incontro: "Arrivato a casa, raccontò che gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso d’infame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben certo qual de’ due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l’avesse saputo tener lontano. - Se mi s’accostava un passo di più, - soggiunse, - l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone".
A loro modo, gli untori sono un portato della ragione. Ignari di microbiologia, bisognava escogitare una qualche causa logica, meccanica, umana per il diffondersi della pestilenza. Manzoni, cattolico, dà alla divina provvidenza un ruolo risolutivo nel suo romanzo. Però non si nasconde il resto: l’isterica credulità delle masse, la persistenza di pratiche superstiziose, l’ottusità popolare ostinata nell’errore.
Nella Milano colpita dalla peste, il popolo chiede al cardinale Borromeo una processione per impetrare la grazia celeste. Il sant’uomo intuisce i rischi, sulle prime s’oppone poi è costretto a cedere. L’11 giugno 1630 un grande corteo - autorità, musicanti, popolo, le spoglie di san Carlo - attraversa la città. Il giorno dopo si registra un forte aumento nel numero dei contagi e dei decessi. Le tragiche conseguenze vengono però attribuite non ai contatti che la ressa ha favorito bensì all’azione degli untori. Tale il bisogno d’aggrapparsi a un’ipotesi che apparisse comprensibile.
Lo scrittore americano Jack London nel suo breve romanzo visionario La peste scarlatta immagina che nel 2013 un’epidemia abbia sterminato quasi per intero il genere umano. I pochi sopravvissuti sono ridotti alla condizione selvaggia dei primi uomini. L’educazione alla civiltà deve faticosamente ricominciare daccapo. Lo scrittore portoghese José Saramago (premio Nobel 1998) nel suo romanzo-saggio Cecità ha immaginato che una misteriosa epidemia renda tutti ciechi. Il dono della vista viene di colpo sostituito dal bianco di un’accecante lattescenza. Gli infelici colpiti dal male vengono chiusi in una specie di manicomio-lazzaretto dove le loro condizioni regrediscono ad uno stadio animalesco di selvaggia violenza. Lo scrittore ammonisce: il comportamento razionale, la civilizzazione della convivenza, è un fragile strato superficiale sotto il quale covano i primitivi istinti ferini della scimmia umana.
Nel 1947 lo scrittore francese Albert Camus pubblicò il romanzo La Peste. La città di Orano (Algeria) è funestata da un’epidemia causata dai ratti. Un male reale che però allude anche alla guerra e al fascismo. Quando l’epidemia è finalmente vinta, la città festeggia. Assiste, tra gli altri, il dottor Rieux, medico valoroso che s’è impegnato contro il male. Il coraggioso dottore pensa che: "Quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine d’anni addormentato nei mobili, nella biancheria, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce. E che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice".
Forse però il più alto significato metaforico attribuito alla parola peste è quello usato da Sigmund Freud. Nel 1909 il padre della psicoanalisi fece un viaggio negli Stati Uniti accompagnato dal dottor Sandor Ferenczi, di Budapest e da Gustav Jung. La Chiesa e i costumi borghesi disapprovavano le indagini sulla sessualità. La psicoanalisi sembrava insidiare ogni pudicizia, in particolare quella dei bambini e delle ragazze. Gli uni e le altre dovevano ignorare certi impulsi o conoscerli per accenni. Freud invece andava nella direzione opposta portando alla luce anche gli aspetti più indecenti.
Ecco perché, mentre la nave attraccava al molo di Manhattan, in un’America ancora fiduciosa nella sua innocenza, Freud, rivolto al suo collaboratore, pronunciò le celebri parole: "Non sanno che siamo venuti a portare la peste".