la Repubblica, 14 giugno 2020
Statue e calciatori
S i usa dire che una barca regali al proprietario due momenti di felicità: quando la compra e quando la rivende. Analogamente le statue donano al popolo sul cui suolo vengono erette due istanti di tumultuosa gioia: quando vengono inaugurate e quando vengono abbattute. Nel frattempo: polemiche e piccioni. Bisognerebbe avere l’accortezza di diventare tutto fuorché famosi. E se proprio non si sfugge al destino, evitare categoricamente, per via orale o testamentaria, il monumento. Passi il ritratto: sta al chiuso, ha un ingombro limitato, coglie l’espressione, al limite lo spazio in soffitta. La statua è una maledizione in corso d’opera: sfugge l’anima del soggetto, rivela prima il servilismo e infine la furia degli iconoclasti o dei servi di nuovi padroni. Ha spesso una suggestione da quiz televisivo: «Trenta secondi per riconoscerlo, chi è questo?». Non risparmia nemmeno i papi: basti il travagliato Giovanni Paolo II davanti alla stazione Termini, che simboleggia l’accoglienza come un mollusco bivalve. Figurarsi un calciatore. Qui non abbiamo un problema, ma tre: il soggetto è vivo, quando tende all’epico lo fa in movimento e divide.
Questo comporta che spesso l’originale si trovi, imbarazzato, davanti alla copia. Che risulti evidente come l’assenza di dinamismo tolga significato alla sua presenza: tra un Messi palla al piede, uno con lo smoking a pallini e uno di marmo si percorrono tre gradi di scala involutiva, neppure Auguste Rodin sarebbe un marcatore efficace. Infine, e inevitabilmente, fa sì che la delusione per un esito mancato o un tradimento venga sfogata con il vandalismo. Nel frullatore contemporaneo si dà o si minaccia l’assalto alle statue di Colombo e di Churchill, di re Baldovino e di Montanelli, di Ibrahimovic e di Sanchez. Purtroppo non per estetica, ma per presunta etica. Proviamo a prenderla con filosofia. Il pensatore svedese Torbjorn Tannsjo sostiene che l’idolatria dei campioni sia pericolosa perché rappresenta il culto della forza e il disprezzo della fragilità umana, eleva l’atleta in sé, per il suo fisico più che per l’impresa. Lo contrasta il suo allievo, l’esiliato argentino Claudio Tamburrini: ora, sostiene, si ammirano minoranze etniche, corpi non eccezionali, gesti simbolici. E usa uno di questi come titolo del suo saggio: «La mano di Dio», quella di Maradona che all’Azteca segnò all’Inghilterra, «concedendo l’incruenta rivincita di una guerra e ponendole fine». Proprio nello stadio di Città del Messico c’è una statua che ricorda quell’azione fallosa e provvidenziale. Curiosamente, una “mano di Dio” è stata davvero scolpita da Auguste Rodin e si trova a Parigi. E da Parigi iniziò la complicata tournée di un’altra statua sportiva: il “Colpo di testa”, di Adel Abdessemed. O meglio: di Zidane a Materazzi. Dall’ingresso del centro Pompidou viaggiò a Pietrasanta, per una mostra sulle influenze culturali tra Italia e Francia, poi a Doha, dove fu inizialmente posta sul lungomare (non distante da un colossale monumento alla conchiglia). Toccò a Platini brigare per farla sparire all’interno di un mus eo. Non c’è pace per i calciatori di marmo: a Messi han lasciato i piedi, Maradona a Calcutta pare Cocciante, Valderrama Truciolo. Cristiano Ronaldo non si piace mai e prova a scolpirsi da sé, piazzandosi in posa dopo ogni gol. Ma se sbaglia il rigore, poi come fa a mettersi su un piedistallo? Al ritorno del calcio giocato la sola statua vista e non ammirata aveva sì i colori bianconeri, ma era Pjanic.