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 2020  giugno 14 Domenica calendario

Intervista a Bob Dylan

Alcuni anni fa, seduti all’ombra degli alberi a Saratoga Springs, nello Stato di New York, ebbi una discussione di due ore con Bob Dylan che spaziò da Malcolm X alla Rivoluzione Francese, Franklin Delano Roosevelt e la Seconda guerra mondiale. A un certo punto mi chiese cosa sapessi del massacro di Sand Creek del 1864. Quando risposi «Non abbastanza», si alzò dalla sua sedia pieghevole, salì sul suo pullman da tour e tornò cinque minuti dopo con delle fotocopie che descrivevano come le truppe americane avessero massacrato centinaia di pacifici Cheyenne e Arapaho nel Colorado sudorientale.
Vista la natura della nostra relazione, mi sono sentito libero di contattarlo ad aprile, dopo che aveva inaspettatamente pubblicato, nel pieno della crisi del coronavirus, Murder most foul , un epico brano di 17 minuti sull’assassinio del presidente John F. Kennedy. Anche se non aveva rilasciato nessuna intervista importante al di fuori del suo sito web da quando aveva vinto il Nobel per la letteratura nel 2016, ha accettato di farsi una chiacchierata per telefono dalla sua casa di Malibu, in California, ed è stata la sua unica intervista prima dell’uscita, venerdì prossimo, di Rough and rowdy ways , il suo primo album di brani originali dopo Tempest , del 2012. (...) Forse un giorno scriverà una canzone o dipingerà un quadro per rendere omaggio a George Floyd. Negli anni 60 e 70, sulla scia degli sforzi dei leader neri del movimento per i diritti civili, Dylan si impegnò per mettere a nudo l’arroganza del privilegio bianco e l’oscenità dell’odio razziale in America con canzoni come George Jackson , Only a Pawn in Their Game e The Lonesome Death of Hattie Carroll.
Uno dei suoi versi più forti su polizia e razza fu in Hurricane , la ballata del 1976: “A Paterson è così che vanno le cose / se sei nero è meglio non farti vedere per strada / se non vuoi cacciarti nei guai”. L’ho chiamato il giorno dopo l’uccisione di Floyd a Minneapolis per avere un suo breve commento. Chiaramente scosso da questa cosa orrenda che era successa nel suo Stato di origine, sembrava depresso. «Vedere George torturato a morte in quel modo mi ha nauseato», dice. «È una cosa indescrivibile. Speriamo che arrivi giustizia per la famiglia di Floyd e per la nazione».
“Murder most foul” è stata scritta come una celebrazione nostalgica per un’epoca perduta?
«Per me non è un pezzo nostalgico. Non lo vedo come una glorificazione del passato o come una specie di commiato da un’età perduta. È un pezzo che mi parla qui, nel presente. Ed è sempre stato così, soprattutto quando scrivevo il testo».
“I contain multitudes” ha un verso potentissimo: “Dormo con la vita e la morte nello stesso letto”.
Probabilmente tutti ci sentiamo così quando arriviamo a una certa età. Pensi spesso alla mortalità?
«Penso alla morte della razza umana. Il lungo e strano viaggio della scimmia nuda. Non è che voglia prendere la cosa alla leggera, ma la vita di ognuno è estremamente effimera. Ogni essere umano, non importa quanto forte o potente sia, è fragile di fronte alla morte. Io ci ragiono in termini generali, non in modo personale».
C’è un forte sentimento apocalittico in “Murder most foul”. Temi che ormai, nel 2020, siamo arrivati oltre il punto di non ritorno? Che la tecnologia e l’iperindustrializzazione operino contro la vita umana sulla terra?
«Sicuramente ci sono molti motivi per essere preoccupati. C’è molta più angoscia e nervosismo su questa cosa rispetto a un tempo. Ma vale solo per persone di una certa età come me e te, Doug. Abbiamo la tendenza a vivere nel passato, ma è una cosa solo nostra. I bambini non hanno questa tendenza. Non hanno nessun passato, e quindi sanno soltanto quello che vedono e ascoltano, e credono a qualsiasi cosa. Fra venti o trent’anni saranno loro alla ribalta. Quando vedi qualcuno che oggi ha dieci anni, sai che fra venti o trent’anni sarà lui al potere, e non saprà niente del mondo che conoscevamo noi. Gli adolescenti di oggi non hanno ricordi, e probabilmente la cosa migliore da fare è entrare in questa mentalità il prima possibile, perché diventerà la realtà. Quanto alla tecnologia, rende tutti vulnerabili. Ma i giovani non la pensano così. A loro non potrebbe importare di meno. Le telecomunicazioni e la tecnologia avanzata sono il mondo in cui sono nati. Il nostro mondo è già obsoleto».
C’è un verso di “False Prophet” — “sono l’ultimo dei migliori, gli altri li puoi seppellire” — che mi ha fatto venire in mente la recente scomparsa di John Prine e Little Richard. Hai ascoltato la loro musica quando sono morti, come una sorta di tributo?
«Tutti e due hanno trionfato con il loro lavoro. Non hanno bisogno di tributi da parte di nessuno. Ma con Little Richard io ci sono cresciuto. E c’era prima di me. Ha acceso un fiammifero sotto di me, mi ha fatto entrare in sintonia con cose che non avrei mai conosciuto da solo. Perciò penso a lui in maniera diversa. John è venuto dopo di me, non è la stessa cosa. Li vedo in modo diverso».
Perché la musica gospel di Little Richard non ha avuto così tanto successo?
«Probabilmente perché la musica gospel è la musica delle buone notizie e di questi tempi le buone notizie semplicemente non ci sono. (...) Little Richard era un grande cantante di gospel, ma credo che fosse visto come un intruso nel mondo del gospel. E ovviamente il mondo del rock’n’roll voleva che continuasse a cantare Good Golly, Miss Molly . Insomma, i suoi pezzi gospel non erano accettati in nessuno dei due mondi. Credo che la stessa cosa sia successa a Sister Rosetta Tharpe. Penso che nessuno dei due se ne preoccupasse più di tanto. Erano persone di carattere, come si diceva un tempo: genuini, pieni di talento e sapevano chi erano, non si facevano condizionare minimamente da tutto quello che stava fuori. Il Little Richard che conosco io era così. Anche Robert Johnson, anzi ancora di più. Era uno dei geni più inventivi di tutti i tempi, ma probabilmente non aveva un pubblico a cui parlare. Era talmente avanti che ancora oggi non l’abbiamo raggiunto. Oggi è enormemente considerato, ma allora le sue canzoni sicuramente confondevano la gente. È la dimostrazione che le grandi persone seguono una loro strada».
In “Murder most foul” citi Art Pepper, Charlie Parker, Bud Powell, Thelonious Monk, Oscar Peterson e Stan Getz. In che modo ti ha ispirato il jazz come cantautore e poeta?
«Ma che cos’è il jazz? Non lo so: si può infilare di tutto in quella categoria. Ella Fitzgerald mi ispira come cantante. Oscar Peterson come pianista, senza alcun dubbio. Se qualcosa di tutto questo mi ha ispirato come autore di canzoni? Sì, Ruby, my dear , di Monk. Mi spinse a fare qualcosa di quel genere. Ricordo che la ascoltavo incessantemente».
Che ruolo gioca l’improvvisazione nella tua musica?
«Nessuno. Non puoi cambiare la natura di una canzone, una volta che l’hai inventata. Puoi attaccare alle linee strutturali degli schemi di chitarra o di piano diversi e partire da lì, ma questa non è improvvisazione. L’improvvisazione ti lascia aperto alla possibilità di fare un’esecuzione buona o cattiva, e l’idea è di rimanere coerente. Sostanzialmente, suoni la stessa cosa più e più volte nel modo più perfetto che conosci».
“I contain multitudes” in certi punti è sorprendentemente autobiografica. Gli ultimi due versi trasudano uno stoicismo che non fa sconti a nessuno, mentre il resto della canzone è un confessionale umoristico.
«È una di quelle cose in cui accumuli versi da flusso di coscienza, e poi li lasci riposare e ci tiri fuori delle cose. È uno di quei pezzi che scrivi d’istinto, quasi in stato di trance. La maggior parte delle mie canzoni più recenti sono così. I versi sono la cosa reale, tangibile: non sono metafore. Le canzoni sembrano conoscere se stesse, e sanno che io sono in grado di cantarle, vocalmente e ritmicamente. In un certo senso, è come se si scrivessero da sole e poi si affidassero a me per cantarle».
Anche qui citi un mucchio di gente. Cosa ti ha spinto a decidere di citare Anna Frank accanto a Indiana Jones?
«La storia di Anna Frank è importantissima. È profonda. Ed è difficile da articolare o parafrasare, soprattutto nella cultura moderna, dove tutti hanno una soglia di attenzione brevissima. Ma devi mettere il fatto che cito Anna Frank nel contesto: fa parte di una trilogia. Avresti potuto chiedermi anche: “Che cosa ti ha spinto a decidere di includere Indiana Jones o i Rolling Stones?”. I nomi in sé non sono solitari. È la loro combinazione che dà vita a qualcosa di più delle singole parti. Scendere troppo nel dettaglio è irrilevante. La canzone è come un dipinto: se stai troppo vicino, non riesci a vederlo tutto. I singoli pezzi sono solo parte dell’insieme. I contain multitudes è più simile a una scrittura in stato di trance. Anzi, non è che è simile, è proprio scrittura in stato di trance. È come percepisco realmente le cose.
È la mia identità, e non voglio metterla in discussione: non sono nella posizione per farlo. Ogni verso ha un suo scopo specifico. Da qualche parte nell’universo quei tre nomi hanno sicuramente pagato un prezzo per quello che rappresentano, e sono legati tra loro. E io non riesco a spiegarlo, a spiegare perché, dove o come, ma i fatti sono questi».
Ma Indiana Jones era un personaggio immaginario.
«Sì, ma la colonna sonora di John Williams lo ha portato in vita. Senza quella musica, non sarebbe stato un gran film. È la musica che dà vita a Indy. Forse, quindi, è questa una delle ragioni per cui sta nella canzone. Non lo so, tutti e tre i nomi sono venuti così».
Quali canzoni dei Rolling Stones vorresti aver scritto tu?
«Ah, non lo so, forse Angie, Ventilator blues e quale altra? Vediamo… ah sì, Wild Horses».
Come hai passato gli ultimi due mesi rifugiato in casa a Malibu? Sei riuscito a saldare o a dipingere?
«Sì, un po’».
Riesci a essere creativo quando sei a casa? Suoni il piano e gironzoli per il tuo studio privato?
«Questo lo faccio soprattutto nelle stanze d’albergo. Una stanza d’albergo è la cosa più vicina che riesco ad avere a uno studio privato».
Il fatto di avere l’Oceano Pacifico dietro casa ti aiuta a elaborare in modo spirituale la pandemia di Covid 19? C’è una teoria, chiamata la “mente blu”, che sostiene che vivere vicino all’acqua faccia bene alla salute.
«Sì, non fatico a crederlo. Cool water, Many rivers to cross, How deep is the ocean: sento una qualunque di queste canzoni ed è come una sorta di cura, non so per cosa, una cura per qualcosa che non so nemmeno di avere. Un rimedio di qualche tipo. È come una cosa spirituale. L’acqua è una cosa spirituale. Non ho mai sentito parlare di questa teoria della “mente blu”. Suona come se fosse una canzone blues lenta, qualcosa che avrebbe scritto Van Morrison. Magari l’ha scritta, non lo so».
È un vero peccato che proprio quando l’opera teatrale “Girl from the North Country”, dove ci sono le tue musiche, stava ottenendo un grande successo di critica, la produzione abbia dovuto chiudere i battenti per via del Covid 19. Sei andato a vederla, o hai guardato il video?
«L’ho vista, certo, e mi ha colpito. L’ho vista come uno spettatore anonimo, non come qualcuno che era coinvolto in qualche modo. Mi sono lasciato andare. Mi ha fatto piangere, alla fine. Non so nemmeno dire perché. Quando è calato il sipario, ero stordito. Stordito davvero. Peccato che Broadway abbia chiuso, volevo rivederla».
Pensi a questa pandemia in termini quasi biblici, una piaga che ci ha colpiti?
«Penso che sia un presagio di qualcos’altro che verrà. È di sicuro un’invasione, ed è diffusa ovunque, ma biblica in che senso? Vuoi dire come una sorta di segnale di avvertimento per le persone, perché si pentano delle loro malefatte? Questo implicherebbe che il mondo sia destinato a una qualche sorta di punizione divina. L’arroganza estrema può avere sanzioni estreme. Forse siamo sulla soglia della distruzione. Ci sono molti modi in cui si può ragionare su questo virus. Credo che si debba semplicemente lasciare che faccia il suo corso».
Come va la salute? Sembri in gran forma. Come fai a far lavorare mente e corpo all’unisono?
«Ah, questa è la grande domanda.
Come fa chiunque? La mente e il corpo vanno a braccetto. Dev’esserci un qualche accordo. Mi piace pensare alla mente come spirito e al corpo come sostanza. Come si integrino queste due cose, non ho idea. Io cerco solo di percorrere una strada dritta e di rimanerci, senza scossoni».
©2020 The New York Times Company
Traduzione di Fabio Galimberti