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 2020  giugno 14 Domenica calendario

Storia delle spie

Le parole denuncia e delazione significano entrambe riferire all’autorità la notizia di crimini o atti riprovevoli, già avvenuti o in preparazione, ma non sono sinonimi. È evidente infatti la connotazione negativa della seconda, l’aura di doppiezza, di viltà, di tradimento che emana dall’anonimato con cui il delatore consegna al potere (civile o ecclesiastico che sia) e alla sua macchina repressiva persone ignare, di cui magari è stato anche complice. Un comportamento, il suo, spesso tutt’altro che disinteressato, ma motivato dalla ricompensa o dall’impunità che ne può derivare, da puro opportunismo o servilismo, dal desiderio di vendetta, dalla speranza di ottenere favori. Ma la denuncia o delazione può nascere anche dalla calunnia, dall’approfittare della propria credibilità per riferire alle autorità cose false, per gli scopi più vari, rancori, brame di possesso, odii personali, strategie politiche, rivalità d’ogni tipo. Ciò detto, come questo volume dimostra, le cose – al solito – sono più complicate, e «il confine fra denuncia e delazione, e dunque fra una collaborazione virtuosa ed un atto riprovevole, appare labile, poroso, permeabile» (p. 13).
Un contributo fondamentale alla lotta contro il terrorismo in Italia, per esempio, fu dato dalla cosiddetta legge sui pentiti, approvata nel maggio del 1982, che garantiva forti sconti di pena a chi decideva di collaborare con lo Stato, offrendo in tal modo anche una via di fuga a quanti erano ormai stanchi o delusi della lotta armata. Fu il caso dell’assassino di Carlo Casalegno, Patrizio Peci, il cui fratello Roberto fu poi ammazzato per rappresaglia dalle Brigate Rosse; o dell’assassino di Walter Tobagi, Marco Barbone, arrestato nel 1980 e subito pronto a fare i nomi dei suoi compagni per ottenere una mite condanna e una rapida scarcerazione, fino ad aderire poi a Comunione e Liberazione e scrivere su «Il Giornale» di Silvio Berlusconi. E così anche per la mafia, con i tanti pentiti (o sedicenti tali), primo fra tutti Tommaso Buscetta, le cui rivelazioni sono state fondamentali per incastrare potentissimi esponenti di Cosa Nostra. Negli Stati Uniti una legge premia chi rivela atti illeciti alla pubblica amministrazione, e qualcuno ha proposto di fare qualcosa di simile anche in Italia per combattere l’evasione fiscale.
Si può dire ogni male della delazione, insomma, deprecare il fatto che il giusto sia sacrificato sull’altare dell’utile, ed è difficile che essa diventi oggetto di ammirazione, gratitudine, simpatia, ma non c’è dubbio che possa essere talora decisiva per le sorti di individui, città e Stati, sempre pronti del resto ad avvalersi di traditori, disertori, informatori, spie. 
Alla fine del Duecento esisteva a Bologna un vero e proprio Officium spiarum, e in molte città c’erano cassette o bocche della verità in cui imbucare le anonime denunce, cosa che a Montesquieu parve un inequivocabile segno di governo dispotico. Cesare Beccaria pronunciò una dura condanna della delazione nel Dei delitti e delle pene («un tal costume rende gli uomini falsi e coperti»), negandone la validità in sede processuale. Ma si tenga conto anche di un’altra prospettiva, documentata in alcuni di questi saggi: quella secondo cui la delazione poteva essere anche una sorta di avvertimento, un monito, una sorta di evangelica correctio  fraterna nei confronti di colui o coloro che prendeva di mira perché si ravvedessero e si sottraessero così a una denuncia formale, gravida di pesanti conseguenze, e si evitasse al tempo stesso di infrangere i legami connettivi e la concordia della comunità.
Vale dunque la pena di risalire all’indietro nel tempo di una storia lunga (in fondo – si legge nell’Introduzione – il primo delatore fu Adamo nei confronti di Eva!), che va dal sicofante dell’antica Grecia ai cosiddetti collaboratori di giustizia di oggi. Ed è quanto fa questa raccolta di saggi, che affrontano il problema e le sue molte sfaccettature tra Medioevo e prima età moderna. La denuncia o delazione, per esempio, erano talvolta incoraggiate dagli statuti comunali, e in esse si esprimeva anche un forte desiderio di partecipare al bene collettivo (sia pure con l’incentivo di qualche ricompensa), soprattutto in un momento di emergenza in cui era necessaria la collaborazione di tutti, quello che per Carl Schmitt sarà lo stato d’eccezione, che rende legittima la sospensione dello stato di diritto da parte di un potere dittatoriale. Non a caso molti dei saggi qui raccolti sono relativi a varie realtà cittadine tardomedievali. Anche nell’ambito delle corporazioni professionali la delazione era «ritenuta utile ad assicurare la disciplina interna al gruppo di mestiere, pur rischiando di corrodere relazioni fiduciarie e di diffondere sospetti e diffidenze trasformando l’utilità in danno» (p. 15).
Nei processi inquisitoriali, invece, oltre a essere incoraggiata dai giudici la delazione dei complici era considerata la prova più sicura dell’autenticità del pentimento del reo, tale da diventare una conditio sine qua non per sottrarsi al rogo o a una severissima punizione. Un papa inquisitore del ’500 come Paolo IV ordinò ai confessori di non assolvere i penitenti che si rifiutassero di rivelare agli inquisitori i nomi degli eretici di cui fossero venuti a conoscenza, e il suo più fido collaboratore, diventato anch’egli papa di lì a pochi anni con il nome di Pio V, obbligò a collaborare con il Sant’Ufficio anche i medici che assistevano i moribondi e a rifiutare loro le cure qualora si astenessero dai sacramenti in articulo mortis.
A riprova della complessa attualità dei temi affrontati in prospettiva storica da questi saggi, merita citare la conclusione e l’auspicio di Maria Giuseppina Muzzarelli: «Forse può contribuire alla ricostruzione della fiducia nell’autorità e nella realizzazione del bene comune anche una riconsiderazione della collaborazione con le autorità a tutela dell’interesse generale, dei più deboli e di buone cause collettive. Allo slogan perentorio “chi fa la spia non è figlio di Maria” automaticamente riconosciuto come espressione di una cultura popolare indiscussa andrebbe contrapposto il dubbio: riferire all’autorità non è un modo per assicurare il rispetto delle regole e tutelare le vittime?».