Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2020
In lacrime a Notre-Dame
La storia in diretta. L’esserci stato. L’aver visto. L’essere testimone oculare.
Che cosa vuol dire, in fondo? Quando discutevo da ragazzo con mio padre della guerra, e non eravamo d’accordo su nulla – aveva ragione lui: ma io avevo studiato, e lo fregavo sulla dialettica -, arrivava il momento in cui mi diceva, arrabbiato: «Ma queste cose le vuoi insegnare a me che c’ero, che le ho viste?».
Lo ripeto, aveva ragione lui, e io ero un ragazzino saccente e sleale. Ma avevo capito già (e lo avrei approfondito in seguito, facendo il mio mestiere) che non c’è nulla di più insicuro e di più ingannatore dell’esperienza storica, della testimonianza diretta. Quante brave povere donne sono finite sul rogo, fra Trecento e Settecento, perché c’erano tanti bravi paesani pronti a giurare dinanzi al giudice – e spesso in buona fede – di averle viste volare di notte a cavallo di una scopa?
Eppure, l’esserci stato conta. Anche quando poi sbagli nel giudicare o menti nel narrare. Conta perché c’è differenza. Come c’è tra il raccontare di aver riso, aver pianto, aver amato, aver sofferto e l’aver davvero, con tutte le fibre, riso, pianto, amato, sofferto.
E io c’ero, ho visto. Ero là, quel pomeriggio del 15 aprile 2019. Queste cose avrei dovuto e voluto scriverle qualche settimana fa, per il primo anniversario. Poi c’è stato il coronavirus e tutto è slittato. Ma cambia poco. Se chiudo gli occhi, mi ci rivedo. E vorrei dire che ci ripenso tutte le notti: e so che non mi crederete. Ed è la verità.
Verso le sei e mezza del pomeriggio, a metà aprile c’è già tantissima luce. Noi la diciamo “latina”, Parigi: ma ha quasi la stessa latitudine di Londra. Dopo un’intera giornata di lavoro in quello studio al primo piano di un vecchio palazzo di rue Dauphine, a un passo dalla Tour de Nesle che apparteneva alla vecchia cinta muraria della Cité – 18 metri quadri di serenità piena di libri, dove da una ventina di anni passo buona parte del mio tempo –, la primavera che premeva da dietro i vetri lì mi tentò irresistibilmente. Non è mio, quell’angolo di Ville Lumière, ma ormai è come se lo fosse. In quel momento sentii un bisogno irrefrenabile di uscire a far quattro passi lungo la Senna oppure di attraversare il Pont Neuf per dirigermi verso la Sainte Chapelle o alla volta di Saint-Eustache, alle Halles. Più tardi, mi sarei chiesto se quel bisogno non era piuttosto un richiamo: o forse un presagio.
Era il Lunedì santo, sei giorni prima di Pasqua. Là nell’emiciclo all’incrocio tra rue Dauphine, Quai de Conti e Quai des Grands Augustins, all’imbocco del Pont Neuf, una piccola folla sostava attonita, silenziosa, lo sguardo rivolto a destra, verso est. Quel silenzio mi sorprese: anche perché contrastava bizzarramente con l’onda dell’improvviso, incomprensibile rumore proveniente da quella parte e che andava aumentando. Troppo, per un pomeriggio come gli altri. Ma un rumore artificiale e meccanico, indecifrabile: come un mareggiare lontano.
Là, a partire da un punto che ci parve situato dietro l’abside di Notre-Dame, si alzava dritta nel cielo senza vento un’alta colonna di fumo denso e bruno; alla base di essa guizzavano inconfondibili lingue di fuoco rosso-arancio; su nel cielo, a qualche centinaio di metri, il vento che in quota era più forte stava mutando quella colonna di fumo in una nube scura che minacciosa si andava allargando in direzione sud-ovest, verso Montparnasse e la Tour Eiffel.
Attratto da quello spettacolo mi avviai nella direzione dalla quale la colonna di fuoco e di fumo pareva sprigionarsi: tuttavia, con una scelta che pur avvertivo illogica, invece di percorrere il Quai des Grands Augustins mantenendomi sulla Rive gauche, preferii passare il ponte, girare a destra e procedere per la Rive droite, percorrendo il Quai de la Mégisserie. Mi pareva – e lo speravo – che l’incendio si fosse sviluppato là, in qualche parte tra il Marais e Place de la Bastille. Non so perché, mi sentivo il cuore in gola: procedendo a passo sempre più sostenuto, quasi di corsa – attorno a me, altri facevano la stessa cosa – arrivai fino a Place du Châtelet dove dovetti arrestarmi. Il traffico era ormai paralizzato in un immenso ingorgo, ma la città impazziva di rumori, di sirene, di suoni di clackson: e perfino noialtri pedoni eravamo imbottigliati. Tuttavia mi colpì il silenzio della folla che si era fatto profondo, pauroso; e i clamori unicamente meccanici non facevano che sottolinearlo. Qualcuno bisbigliava nelle orecchie dei vicini, come in chiesa. Là oltre il fiume, al di là dei palazzi del Lungosenna e della mole dell’Hôtel-Dieu, la cattedrale di Notre-Dame – Nostra Signora, quella di Victor Hugo e di Eugène Viollet-le-Duc – stava bruciando. Da dove mi trovavo potevo veder chiaramente la guglia centrale, la grande flèche puntata verso il cielo, che ardeva avvolta di fiamme.
Un enorme fiammifero alto su Parigi. Per una strana ma spontanea associazione d’idee mi venne in mente una poesia di Jacques Prévert: una notte buia, un fiammifero che si accende, la bocca illuminata di una ragazza, un bacio. Verso le sette e mezza, la flèche crollò con uno schianto immenso cui fece eco il grido della folla che ormai aveva riacquistato la voce. Quando l’immensa freccia rovinò con un ruggito da mare in tempesta, in un oceano di fiamme, mi accadde una cosa che mi sconvolse e che non dimenticherò mai: se ci penso, sento ancora un brivido sotto la pelle che arriva fino alla punta delle dita. Fu come se tutta la mia vita mi passasse d’un lampo davanti: dicono che succede così quando si muore. Là, imprigionati in quella guglia, c’erano i miei ricordi, i miei sogni, i miei studi, le risate, i litigi, i ristorantini la sera, le passeggiate mano nella mano, le giornate alla Bibliothèque Richelieu e le serate in métro, le frites mangiate per strada d’inverno che ti scottavano le dita, il joli mai, i cinema la domenica al Carrefour de l’Odéon, i tavolini sulle terrasses dei caffè, i bouquinistes. C’era tutto quanto c’era stato e anche quello che non si era mai avverato. Soprattutto quello. Vivo, presente, struggente. Le cose rimpiante: quelle che fanno più male.
Non avrei mai sospettato che fossero là: ora le ritrovavo ad aspettarmi, come impacciate e infreddolite; ed ero impreparato a incontrarle, e non potevo accoglierle, e le vedevo svanire lontano, e mi sentivo solo e vuoto. Mi coprii la faccia col cavo delle mani e piansi, piansi a dirotto per un tempo che mi parve lunghissimo, come un bambino e come da ormai chissà quando non mi capitava più.
Ma no, non piangevo per quello. Non era Notre-Dame. O meglio, non era soltanto lei. Erano la storia, il gotico, la guerra mondiale, i libri, il cinema, le canzoni, la libertà, l’amore. Era l’Europa. E l’Europa è Notre-Dame, e Notre-Dame è Parigi, e Parigi è l’Europa.
La costruiremo di nuovo. E sarà più bella di prima.