Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2020
Attenzione, il sangue non è acqua
Oggi è la Giornata mondiale dei donatori di sangue. Si celebra il 14 giugno perché è il giorno in cui nacque Karl Landsteiner, lo schivo medico austriaco emigrato negli Stati Uniti che nel 1900 identificò i gruppi sanguigni umani e li classificò col sistema AB0. Una scoperta che gli valse il Nobel. Infaticabile, nel 1940 scoprì il fattore Rh che, in base a un antigene proteico sulla superficie dei globuli rossi, distingue il nostro sangue in Rh+ e Rh-. Grazie a Landsteiner oggi pratichiamo trasfusioni in tranquillità, regalandoci l’un l’altro la vita di rubino e ossigeno nel cui fiume di plasma scorrono i globuli rossi, i bianchi e le piastrine. Cioè le cellule il cui numero corriamo subito a vedere – se sono troppe, se sono poche – non appena ritiriamo l’esame emocromocitometrico, quello che in famiglia chiamiamo «l’esame del sangue». Dice se siamo anemici, abbiamo un’infezione, rischiamo un’emorragia. Il sangue, padrone del nostro colorito di rosa o di cera, regna su un impero sterminato: tra arterie, vene e capillari, il sistema circolatorio supera i centomila chilometri e in un giorno produce circa 250 miliardi di globuli rossi, 15 miliardi di bianchi e 500 miliardi di piastrine.
Per semplici ragioni di controllo o per dolorosi motivi di malattia non c’è bambino che non conosca il laccio emostatico, la dottoressa o l’infermiere che dicono «stringi il pugno», l’ago che punge l’incavo del gomito, l’ovatta premuta sul forellino che, tolto l’ago, geme la sua stilla rossa come il corallo. Che del sangue è il genitore mitico: come racconta Ovidio nel quarto libro delle Metamorfosi, Perseo, dopo avere ucciso Medusa, ne appoggia la testa mozzata su uno strato di alghe marine che, assorbendone il sangue, si trasformano nella rossa vegetazione che abita i nostri mari e adorna il bambino della Madonna di Senigallia di Piero della Francesca o pende sulla Madonna della Vittoria di Mantegna. Perché il corallo non è solo l’amuleto a cui fin dai tempi di Plinio venivano attribuite proprietà curative e il potere di tenere lontano il malocchio: è anche il sangue versato da Gesù per la salvezza del mondo. L’intrico dei suoi rami, come vedete nell’illustrazione in pagina, è un piccolo sacro sistema circolatorio in cui torna più volte la forma della croce.
Vita e salvezza, protezione e meraviglia, il sangue è anche, inevitabilmente, morte e vendetta. Per esempio quello che schizza dalla testa di Oloferne nella tela domestica e cruenta di Artemisia Gentileschi, o quello invocato tre volte da Otello cieco di gelosia. Il filo rosso del sangue, la sua formidabile carica metaforica che lega il sacro al profano, scrive Piero Camporesi, «cola sull’immaginario prescientifico a coagulare simboli ora terrifici ora salvifici», fecondando cosmogonie e religioni, dottrine mediche rivoluzionarie e manifesti politici aberranti (il Blut und Boden, sangue e suolo, della propaganda nazista). L’umanità è immersa in un mare di sangue, e non c’è miracolo di San Gennaro che possa salvarci. Il sangue che irrora di vita i nostri organi e porta ossigeno ai nostri pensieri è anche quello che fa esplodere il terrore nei nostri incubi, traboccando dall’ascensore di Shining o dai corpi squartati di Bacon. Del resto, in inglese bloody vuol dire maledetto.
Ogni cultura e ogni folclore hanno immaginato creature assetate di sangue, dalle empuse dell’antichità alle streghe medievali (che «sugano il sangue de’ bambini per ringiovanirsi quanto possono») fino ai chupacabra del moderno centro America. Il cinema, poi, è così affollato di vampiri che l’elenco sarebbe infinito: Dracula, Intervista col vampiro, Miriam si sveglia a mezzanotte, Nosferatu, Solo gli amanti sopravvivono, Per favore non mordermi sul collo, Twilight. Se succhiato a fini terapeutici, ovviamente con sanguisughe, il sangue prende il nome di salasso. Se scende dal naso si chiama epistassi; quando sbocca dai polmoni, con tosse più o meno pucciniana, è un’emottisi; prende il generico nome di emorragia quando sgorga per ferite interne o esterne (se zampilla molto è un film di Tarantino). Sanguinamenti anche minimi preoccupano gli ipocondriaci che, se geniali come Woody Allen, commentano così: «Sangue: strano, dovrebbe star dentro».
Dei nobili si dice che sia blu, dalle rape cavarlo è un’impresa, i più sensibili svengono alla sua vista e i più carnivori ordinano al cameriere una bistecca al sangue. Nei rettili è freddo come quello dei giovani assassini del romanzo più bello di Truman Capote: Cold blood.
L’elenco di espressioni dove è il sangue è metafora è uno stillicidio: buon sangue non mente, occhi iniettati di sangue, sangue alla testa, pestare a sangue, sputar sangue, all’ultimo sangue, un bagno di sangue, musica nel sangue, farsi cattivo sangue, non corre buon sangue, gelare il sangue, sangue del mio sangue, il sangue non è acqua.
Il sangue è simbolo di tutto: fatica, rabbia, amore, ferocia. È in un fiume di sangue che Dante immerge i violenti: il Flegetonte, «la riviera del sangue in la qual bolle/qual che per violenza in altrui noccia». È però Shakespeare a inventare l’immagine più spaventosa, la macchia indelebile della colpa insanguinata di Lady Macbeth che nel canto verdiano diventa: «una macchia è qui tuttora... via, ti dico, o maledetta!».
Il sangue è protagonista della Bibbia. L’Antico Testamento proibisce di mangiare «sangue di alcuna specie di essere vivente, perché il sangue è la vita d’ogni carne», da cui le regole della macellazione nella cucina kosher. Con il Nuovo Testamento entra in scena il sangue di Gesù sulla croce, «il sangue del patto» tra Dio e i credenti in Cristo, il sangue che «purifica da ogni peccato». Lo vediamo rosseggiare in tanti dipinti, nelle icone della crocifissione, zampillante dal costato trafitto, dalle mani e dai piedi inchiodati. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna (…) Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda». È il momento più alto della messa, che ribalta l’interdetto ematico veterotestamentario: «Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza». Ne è ricolmo il Graal cioè, nella tradizione medievale, la coppa con cui il Signore celebrò l’Ultima Cena e in cui Giuseppe d’Arimatea si dice abbia raccolto il sangue dopo la crocifissione. Per Tertulliano «è il sangue [dei martiri] il seme della Chiesa».
In un film di qualche anno fa, Il verdetto di Richard Eyre, dal romanzo di Ian McEwan La ballata di Adam Henry, una giudice dell’Alta Corte britannica deve misurarsi col rifiuto di un minorenne leucemico e della sua famiglia, testimoni di Geova, di ricevere una trasfusione. È quando la fede, in nome della vita, va contro la vita. Idealizzato nella sua purezza intoccabile, il sangue può diventare stigma, segno femminile d’impurità mestruale, come ancora accade nell’induismo e in certe sinagoghe. Fare i conti col sangue è fare i conti con il tessuto liquido che unisce la vita e la morte. Lo sa la poetessa suicida Sylvia Plath («il getto di sangue è poesia/non c’è modo di fermarlo»), lo sa Caterina da Siena, devota del Preziosissimo Sangue, che in punto di morte lo evocò tre volte. Ma oggi che è il 14 giugno le nostre parole preferite sono quelle di Papa Francesco quando ci esorta a donare il sangue: «Siate presenza che soccorre».