La Stampa, 14 giugno 2020
Intervista a Valerio Binasco
È l’idea del filo conduttore come legante a irritare Valerio Binasco. Regista, attore, direttore artistico del Teatro Stabile di Torino, si fa venire un sano fastidio all’idea che tutto si tenga. Proprio perché, oramai, nulla più si tiene. La riapertura per decreto lunedì («Male organizzata e in fretta»), un cartellone importante quanto il suo da mettere in piedi a tempo record, con piani di emergenza in caso tutto si aggiusti o tutto precipiti.
Binasco, voi che strada avete scelto?
«Ci siamo affidati alle nostre produzioni fatte in tempo di Covid. Impatto scenografico ridotto, lavoro sugli attori che hanno provato da casa».
Un disastro.
«Anzi. Ci piovono addosso accadimenti che hanno a che fare con l’energia, che appartengono alla vitalità. I problemi di tempo, le regole di sicurezza, questo ci ha costretto a creare un clima di laboratorio. Mi affido alla creatività dei tecnici, alla loro fantasia e loro prendono stimolo dal gruppo artistico».
Ecco il filo conduttore, se permette...
«Se proprio dobbiamo, ma è sottile, occulto, attiene alla poesia. Quando torneremo in scena, proprio domani, per la prima volta dopo il lockdown, lo faremo assieme al pubblico. Palcoscenico e sala avranno un pensiero comune. "Eccoci qui", diremo gli uni agli altri, abbiamo attraversato un periodo terribile ma siamo tornati. Vedere una platea nascosta da mascherine è un fatto unico».
Non poterli guardare ridere o sorridere sarà dura?
«Sì, ma li vedremo ed è già tanto. I miei spettacoli tengono presente il coinvolgimento del pubblico. Non ho altra pretesa. Il mio teatro è rivolto a loro perché di loro parla. Ho sempre sentito un’irresistibile seduzione per i comportamenti della gente, per come si muove, tace. Le relazioni tra persone mi attraggono molto. Osservare la vita nel suo semplice manifestarsi. Trovo una grande poesia nell’umanità, così presa nello sforzo di vivere».
E debutterete al teatro Carignano con L’intervista di Natalia Ginzburg, diretta e interpretata da lei Binasco. Un testo emblematico sul tempo e sull’impossibilità di afferrare quello giusto.
«Ci aiuterà, assieme al miracolo del ritorno, a fare una riflessione sul presente. Abbiamo programmato Molly Sweeney, un famoso caso clinico raccontato dal grande studioso Oliver Sacks e portato al successo da Brian Friel. Qui si smascherano le illusioni sul progresso scientifico. Parliamo dell’ossessione del tempo. Sono fili voltanti che in questo caso danno coerenza alle angosce».
Avete scelto di programmare la stagione dello Stabile di tre mesi in tre mesi. Un intero anno vi sembrava un azzardo?
«Ci adeguiamo alla fase di mutazione, una stagione elastica con tre tipologie di intervento ci pareva più adatta».
La drammaturgia dovrà rendere conto di quanto ci è accaduto. Come raccontarlo senza risultare aneddotica o didascalica?
«La drammaturgia non è un punto di partenza ma di arrivo. Quello che è successo si depositerà nella nostra coscienza».
E che cosa produrrà?
«Non lo sappiamo. Ora è il momento di stare in ascolto. La memoria condivisa è di per sé una novità. Sappiamo di essere dentro il crollo di un sistema, nel passaggio più delicato. E la drammaturgia farà bene a interrogarsi, poi a testimoniare. La drammaturgia riguarda gli uomini, i sentimenti, i linguaggi e la percezione dei nostri rapporti. Non ci interessa la cronaca. Con l’11 settembre è invalsa una nuova percezione dell’America al di là dell’impatto visivo».
Serve qualcosa di epico.
«Il fatto epico siamo noi. Uscire da casa, incontrare i genitori, la nonna. Andare a teatro sarà un fatto epico. Dopo un duro periodo di fame non pensi al ristorante stellato, vuoi mangiare e basta».
I suoi colleghi hanno cercato qualcosa di diverso?
« C’è stato un tentativo isterico di dire ognuno la propria. Ripeto, l’artista oggi deve mettersi in ascolto. Quello che è accaduto deve portarci a capire e a interpretare. A noi si chiede delicatezza di tocco, levità, rispetto. Se invece si saprà intervenire solo sul linguaggio, allora chi se ne frega. La cronaca parla benissimo da sola».
Che cosa le manca di più?
«Teatralmente? Stavo lavorando a Uno sguardo dal ponte di Miller. Quel momento si è bloccato, lasciato a metà in un territorio espressivo che non ritroverò mai più. Che cosa sarà, se e quando lo riprenderemo? Quelle emozioni lì sono perse per sempre. Ce ne saranno di nuove ma non le conosco».
E nella sua vita privata?
«Ancora le vecchie emozioni per come le conoscevo. Le sensazioni di oggi non hanno un nome, mi sono ancora estranee. Sono stato il primo a dover fare una vita che non avevo scelto».
Si riferisce alla quarantena?
«Un mese e mezzo a ritrovare una normalità impossibile. Stavo per separarmi quando è arrivato il lockdown. E siamo rimasti insieme in casa. Si creano squarci che produrranno chissà che cosa, ci sono di mezzo i bambini. La stragrande maggioranza di noi non ha avuto il Covid ma ha avuto parecchio altro».