La Lettura, 13 giugno 2020
Vittorio Gassman ricordato dai figli
Paola, che padre è stato per lei?
«Anomalo. Aveva 23 anni, troppo giovane per essere padre. È stato assente nei miei ricordi infantili. Mamma, Nora Ricci, fu intelligente nel non farmi mai notare le mancanze. Ho riguadagnato il rapporto da grande, quando abbiamo cominciato a parlare, soprattutto di teatro. Era dedito alla sua professione».
Quando si separarono i suoi?
«Quasi subito. Si lasciarono dopo un viaggio di riconciliazione a Capri, si guardarono e risero. Una risata liberatoria. Ma l’affetto tra loro non venne mai meno. Alla fine dico: era negato per fare il padre, anche nei momenti migliori. Però aveva una dote: quella di riconoscerlo. E quindi lo diventava, un grande padre. Con Alessandro era più maturo, con Jacopo lo era troppo. Tra noi fratelli ci sono decenni di distanza: Alessandro ha la stessa età di mia figlia, Jacopo è più piccolo del mio secondo figlio».
Siete legati da un rapporto fraterno?
«Fraterno no, il legame era lui. I Natali non li passavamo tutti insieme, alcuni sì, ma insomma... Papà non amava le tradizioni. Papà e io diventammo più amici che padre e figlia. Diceva che avevo griglie difensive. Ero giovanissima, in Accademia d’arte drammatica si creavano forme di conoscenza. Ero abbastanza rivoluzionaria. Ho cominciato la professione nel ’68: ero una sessantottina, mi ribellavo a essere trascurata da mio padre, volevo cambiare cognome. Alessandro poi l’ha fatto. È una storia tutta strana, Alessandro è tornato alla vera doppia n dei Gassmann per rivendicare origini ebraiche che però sono della nonna Luisa, mio nonno era arianissimo».
Scrisse che in lei vedeva la madre.
«In fondo sono l’unica che ha conosciuto la sua famiglia d’origine: non mio nonno, cioè il padre tedesco che Vittorio perse quando aveva 16 anni. Era venuto in Italia col fratello per cercare due spose italiane e scelsero due sorelle. Poi c’era la sorella di Vittorio, Maria Luisa, detta zia Marì, più grande di cinque anni, aveva velleità artistiche, fu sacrificata».
È vero che da giovane soffriva di sonnambulismo?
«Sì, fino a 30 anni. Poi sempre meno. Nel dopoguerra il teatro si faceva a Milano, abitavano tutti nello stesso palazzo, papà, Ernesto Calindri, Tino Carraro, Carlo Dapporto. Papà li spaventava col sonnambulismo. Il matrimonio con mamma fu costellato da alzate notturne negli alberghi. Era un disturbo nervoso che la mamma avrebbe dovuto curare, invece gli faceva fare piccole incombenze, come trasportare mobili: papà faceva traslochi nell’incoscienza. L’iter del sistema nervoso mostra che ha avuto un finale nella depressione. È passato da una introversione infantile-adolescenziale a uno stato di euforia ed esaltazione, a causa di un mestiere che decise sua madre per lui. Lui voleva essere avvocato o scrittore. Quanto a me... sono bisnonna di un bimbo nato in Giappone!».
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Vittoria, quando scoprì l’Italia?
«Dai miei 11 anni, quando cominciai a studiare l’italiano, vi andavo ogni estate. Era favoloso, mi ha dato la possibilità di vivere un po’ con lui, nelle sue case di Roma e Velletri. All’inizio ogni volta eravamo timidi l’uno verso l’altro, era difficile dialogare. Papà mi veniva a prendere all’aeroporto e mi riaccompagnava, una scena orribile, era doloroso, litigavamo».
Su che cosa litigavate?
«Ero adolescente, insicura e lui molto difficile, tenero, affettuoso ma poteva essere duro. Però sapevo che mi voleva bene. Da piccola mi telefonava spesso. I miei genitori divorziarono che avevo un anno e mezzo. Papà mi veniva a trovare ogni anno a New York, alloggiava in hotel, andavamo allo zoo, abitudine che aveva anche a Roma. La casa di Velletri era affascinante ma le estati erano malinconiche, ero con Juliette, la madre di Alessandro: lei dipingeva, io ero disperata, sola, senza amiche. C’era una biblioteca enorme, tanta letteratura inglese».
Di che cosa parlava con suo padre?
«Di letteratura e dei suoi progetti, mi portava sul set dei suoi film: ricordo un film in costume con lui che sollevava di peso Sophia Loren e durante quella scena mi facevano tanti scherzi, erano buffi. Quando studiavo a Harvard papà vi andò a fare ricerche su Kean. Era colpito da una teoria del mio docente: per capire la personalità di uno scrittore bisogna prendere una sua foto e disporla verticalmente ponendo le proprie mani su metà della faccia, e si mostrano due lati diversi della persona. Era un nostro segreto».
Sua madre, Shelley Winters, come le parlava di lui?
«Me ne parlava bene, dopo il primo periodo di tensione seguito alla separazione. Quando mamma è morta, ho trovato una scatola di lettere che le aveva scritto papà ma non ho avuto mai il coraggio di leggerle, non so se voglio “vedere” la rabbia e il dolore. Il loro amore durò 2-3 anni. Hanno recitato insieme in Mambo, mamma sul set era triste, stavano divorziando. Lei mi disse che, quando si innamorarono, non parlarono mai di dove andare a vivere. Lui pensava in Italia, lei in America. Nessuno dei due voleva andare nel Paese dell’altro».
Era affascinato da Hollywood?
«Sì ma ebbe brutte esperienze. A un pranzo orribile all’Eur mi disse: ecco, ora sai come ho sofferto in America. Io, dopo la laurea in Lettere a Harvard, ne ho presa una in Medicina, poi Geriatria. Sono campi con qualche contatto, bisogna lasciar narrare i pazienti, saperli ascoltare. A un Natale Alessandro faceva il militare e tornò in congedo, papà gli chiese se avesse letto La morte di Ivan Iliččc di Tolstoj, il racconto fondato sulla medicina. Alessandro rispose no e papà gli disse serio: non mangi finché non l’hai letto. Papà era ipocondriaco, temeva le malattie, non capiva perché volessi fare Medicina. Il giorno della laurea mi disse emozionato: sii un bravo medico».
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Alessandro, che cosa le ha insegnato suo padre, a parte la nuda bellezza della parola?
«Che bisogna faticare per raggiungere qualunque traguardo. Questa cosa ha creato in me sensi ci colpa che ho superato con l’analisi e con l’età. Da ragazzo ero pessimo a scuola, ci andavo poco».
E con i congiuntivi com’era messo?
«Cercavo di evitarli. Poi papà mi prese sotto la sua ala, come macchinista teatrale quindi come attore. Mi indottrinò sul concetto di stanchezza fisica che poi ho trasmesso a mio figlio. Mi ebbe a 43 anni, era pronto a essere padre; a 18 andai via di casa e ho evitato la depressione. Sono il figlio che ha avuto il rapporto più profondo e lungo. Era circondato da yes man, io lo facevo ridere, ero il suo buffone, lo prendevo in giro».
Per esempio?
«Alla generale del Moby Dick nel porto di Genova, la scenografia di Renzo Piano, la banda comunale, la musica di Nicola Piovani... Le luci si spegnevano e papà girò verso il ponte dove con un argano veniva issato e posto in cima alla tolda della nave. Mi chiese, com’è andata? E io: mancavano solo i fuochi d’artificio così ti si notava di più».
E lui?
«Scoppiò a ridere e mi abbracciò. Giocava sul fatto di essere colto, forte fisicamente, quando aveva una piccola défaillance gli amici più stretti, Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi e Luciano Lucignani, lo canzonavano. Era sempre scontento delle sue prestazioni, il contrario di quello che diceva in pubblico: io sono il migliore! Fu sua madre a intuire un talento che lui non sapeva di avere. Io avevo una buona mano per il disegno, venivo dalla grafica, mia madre Juliette Mayniel era attrice ma anche pittrice».
E Vittorio nella praticità manuale...
«...Era negato. In tournée mi chiamò nella sua stanza d’hotel all’alba: vieni, non riesco a fare il caffè, ho messo l’acqua ma non si accende. Tutt’intorno fiammiferi. Era una piastra elettrica...».
Perché lei dice che fu il primo dei moderni dissacratori e non l’ultimo degli interpreti classici?
«Perché recitò Amleto a 30 anni e non in età agé come gli altri attori; perché negli anni Cinquanta realizzò il Teatro Popolare. Con i soldi guadagnati al cinema aveva acquistato a sue spese una grande tenda da 3.500 persone, portando i classici italiani nelle periferie. Rese un grande servizio culturale. Come finì quell’avventura? Fu costretto a vendere il tendone, al Cairo, al mercato dei cammelli».
In che cosa è stato un Mattatore?
«Per la cultura: quando parlava aveva studiato e sapeva le cose. Per la generosità: andava nelle carceri senza farlo sapere e senza flash; aiutò un ragazzo finito sotto un treno a Milano, orfano, poi si drogò, non si dava pace per non essere riuscito a salvarlo. Per la sensibilità, che si vede soprattutto nei suoi ultimi film, quelli che magari non sono capolavori».
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Jacopo, quanti anni aveva quando...
«L’ho perso che avevo vent’anni. Sono stati vent’anni molto intensi. Mi ha avuto a 58 anni, nella fase della vita che potrebbe avere un nonno. Anche il suo carattere, dati i momenti depressivi, si era addolcito. Ho il ricordo di una dolcezza estrema e naturalmente di fasi alterne, quando stava bene tornava a essere il gigante in scena. Ha avuto depressioni non eguali tra loro che corrispondevano a mie età diverse. In tanti anni vissuti insieme, a volte faceva fatica a parlare. E allora, prima di andare a coricarsi, mi lasciava una lettera sul mio letto, almeno quando cominciai a essere grammaticalmente idoneo».
Che lettere erano?
«Dolci, ironiche, o piene di apprensione, di un uomo che sentiva un grande amore per me e un vago senso di colpa rispetto al tempo che passava: non avevamo tutta una vita a disposizione. Diceva una battuta famosa per noi in casa: non ci sono per nessuno, a meno che non chiami Bergman. Solo che era depresso anche lui nell’isola di Fårö. Voleva raccontare il suo malessere nei libri, iniziò le riprese di un film di Marco Risi sulla depressione, ne fece soltanto cinque minuti e lo trasfuse in uno spettacolo teatrale, al primo monologo mentre aveva un momento di smemoratezza e non riusciva più a parlare. Scrisse che sentiva di essersi trasformato da istrione in archivista e ricercatore. Di sicuro ho preso più questo suo secondo lato».
Che cosa succedeva quando lei invitava a casa i suoi amichetti?
«Papà inventava giochi che duravano più giorni, le Olimpiadi culturali. Erano quiz per bambini di 5-6 anni con domande surreali: che cos’è una scolopendra? Dove abita Cossiga? Quanto pesa il pugile Tyson? Alcuni miei amici arrivavano preparatissimi e si divertivano, altri non tornavano più. Di solito si vincevano libri, i bambini tornavano a casa con la Recherche di Proust sotto il braccio».
Fantastico.
«In cucina creava cocktail di vari ingredienti, dovevamo indovinare cosa c’era dentro. Acqua, latte, vino, ketchup, acqua, limone. Una schifezza tremenda. In giardino costruimmo con oggetti di ventura, compreso un cocomero, la scenografia per I sette contro Tebe,buffe riletture delle tragedie greche».
Jacopo, lei ha vissuto la depressione però ha ricordi gioiosi...
«Nei viaggi in auto c’era un gioco in cui io ero campione: papà diceva la lettera di una persona, l’altro ne aggiungeva un’altra pensando al cognome di una persona importante. Il guaio è che riusciva a creare difficoltà non da poco, penso a certi intellettuali slavi, a cognomi con cinque consonanti, al calciatore ungherese Zoltán Czibor. Quando arriva una c e una z, cosa puoi aggiungere?».
Poi c’erano i canti dell’«Inferno»...
«Sì, la Divina Commedia, si divertiva a mettervi amici e colleghi: chi mettiamo nel girone dei lussuriosi?».
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Emanuele, lei è figlio di Luciano Salce e Diletta D’Andrea, moglie di Vittorio, amata fino all’ultimo.
«Ho vissuto con mamma e Vittorio da solo dai 2 ai 14 anni. Nel 1980 nacque Jacopo, si aggiunse Alessandro e vivemmo tutti assieme nella stessa casa».
Lei divenne il quinto figlio, l’«altro».
«L’inizio fu difficile, mi sentivo l’intruso. Ma negli ultimi anni le cose cambiarono profondamente in meglio».
Di lei,Vittorio sottolineava la forza e la vulnerabilità.
«Era l’altalena di sfida che lo legava a me. Gli altri vengono spesso colpiti da cose che li riguardano, che non hanno. Vittorio era affascinato dal tema del coraggio e della paura, li ha abitati entrambi, lo ha svelato con i suoi up and down, quando apprese che la macchina attoriale indistruttibile non corrispondeva all’uomo che c’era dietro».
Sta pensando alle sue fragilità?
«Ne aveva molte, forse offuscate dal successo immediato. Era ancora Gassman mentre più tardi diventa Vittorio, quando incontra la sua parte mortale e prende atto che il personaggio pubblico era né più né meno come il suo amministratore di condominio, uno come tutti. Il mio primo ventennio con lui è stato teso, vedeva un bambino, un nanerottolo che davanti a lui, così imponente, non indietreggiava. Poi ho commesso mille errori anche io, sono stato espulso da 7 scuole, allontanato da un asilo e dalla prima elementare, ho infilato una penna stilografica nella mano della maestra, ero un piccolo delinquente, ho fatto il paracadutista, non mi sono fatto mancare nulla. Ho protratto un rapporto complicato e nelle crisi venivo esiliato da papà. Da una casa all’altra, ho fatto “tournée” familiari da vagabondo. Vittorio vedeva in me un rivale al suo trono domestico, geloso della regina, mia madre».
Perché non chiese aiuto a qualcuno?
«Avrei voluto. Vittorio era quello alto e grosso e papà era basso e con i capelli bianchi. Lo vedevo perdente. Solo dopo capii che papà, orfano di madre e prigioniero dei tedeschi dopo l’8 settembre, risollevatosi da mille avversità, era quello forte e Vittorio un gigante d’argilla».
Suo padre e Vittorio erano amici d’antica data.
«Sì, fin dai tempi dell’Accademia Silvio D’Amico e poi al militare. Quanto ai miei, lasciarsi per il migliore amico di papà non era così scontato. Però erano in crisi, è giusto ricordarlo. Papà e mamma rimasero sempre amici».
Tant’è vero che Diletta gli era accanto quando suo padre morì...
«Sì, è così. Papà nell’89 morì. Vittorio, che era il più grande oratore funebre del mondo dello spettacolo, pronunciò un discorso molto sentito in memoria dell’amico. La scena più surreale fu quando tutti andarono a fare le condoglianze a mamma con Vittorio che non sapeva bene dove mettersi. Come se mio padre ne avesse curato la regia, l’ultimo sberleffo di un grande umorista».