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 2020  giugno 13 Sabato calendario

Biografia di Vincenzo Paglia raccontata da lui stesso

Durante i tempi della quarantena mi ero imbattuto in un curioso libro penitenziale. Già il titolo prometteva un leggero e inebriante bagno nell’angoscia: La morte confortata (Edizioni di Storia e Letteratura), ma poi, andando avanti nella lettura ho capito che cosa è stato, nel corso dei secoli, molto prima delle intuizioni di Keynes, il welfare religioso.
A spiegarcelo, con una dotta e brillante ricostruzione, è Monsignor Vincenzo Paglia. Ho pensato che valesse la pena parlargli, perché questo prelato di 75 anni, dall’aria arguta e gioviale, sembra decisamente proporsi come un prete che non fa proclami sulla necessità del bene, perché il bene non ha bisogno di proclami. Ricopre un ruolo importante nella comunità di Sant’Egidio, scrive libri, assolve a incarichi prestigiosi tra le gerarchie ecclesiastiche, ma non ha dimenticato le origini di un apostolato svolto nelle periferie romane. È come se quella traccia ricorresse, per così dire, in ogni cosa che pensa o fa.
Non c’è un eccesso di buonismo che avvolge ed edulcora la sua missione?
«Il buonismo è una deformazione dell’idea di bene, la sua veste ideologica, il suo punto debole. Non si è buoni a tutti i costi. Lo si è in una pratica sociale e individuale, condotta con discrezione, coerenza e fede. Da quando intrapresi gli studi universitari ho avuto presente il problema dei poveri, la loro storia, il loro essere la spina nel cuore sociale della vita. Essere poveri implicava esporsi alle trasgressioni della legge e spesso finire condannati al carcere duro o, nei casi più estremi, alla pena di morte. Per secoli questo è stato il paesaggio nel quale la condizione del povero era subire la realtà e sottomettervisi».
Non è poi così diverso da quello che accade oggi.
«È mutata la forma che definisce la povertà, sono mutati gli strumenti per intervenire. L’economista e premio Nobel Amartya Sen si è occupato analiticamente della povertà, ne parla con la consapevolezza di chi sa che essere poveri in una società fortemente industrializzata è molto diverso che esserlo in aree economiche arretrate».
Intende dire che la complessità di un tema come la povertà è diversa oggi se confrontata con i secoli passati?
«Resta immutato il bisogno di giustizia, allora come oggi. Nei Salmi, come nei Vangeli, la povertà è un tema enorme. Nei Salmi c’è scritto: "Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero". È un’indicazione che in questo nostro tempo acquista un valore profetico imprescindibile. Papa Francesco ne ha fatto il cardine del suo magistero: è indispensabile che la Chiesa riprenda la forma evangelica per poter aiutare il mondo a ritrovare la via della solidarietà e della convivenza tra tutti».
Accennava ai suoi studi universitari.
«Ho preso due lauree. Una in teologia, all’università pontificia di Roma, in storia della Chiesa, e l’altra a Urbino, in pedagogia sul tema della morte, da cui è partita la mia riflessione sui poveri, e in particolare la loro storia in Occidente. Ricordo il grande libro di Philippe Ariès e le discussioni svolte su questi temi con Italo Mancini. Fu lui a fondare a Urbino, grazie al rettore Carlo Bo, l’istituto di scienze religiose. Fu il primo esempio in Italia di una facoltà religiosa in una università laica».
Erano temi poco in sintonia con il clima politico e ideologico di quegli anni.
«Fino a un certo punto, perché i poveri li si poteva vedere sia dal punto di vista della lotta di classe che dal punto di vista in cui nei secoli il cristianesimo li aveva affrontati. Ed è su questo preciso punto che si innesta il mio studio sulle confraternite».
Queste organizzazioni "laiche" quando nascono?
«Durante il Medioevo hanno un peso esclusivamente spirituale, poi con l’ingresso nella modernità il loro ruolo acquista una funzione sociale. Nel Cinquecento vita religiosa e sociale cominciano a intrecciarsi in un reticolo di esperienze straordinarie. Roma diviene l’epicentro di un welfare religioso sconosciuto in passato».
Che tipo di assistenza svolgono le confraternite?
«Il loro compito è di addomesticare la morte. Sia occupandosi degli insepolti, ossia di tutti coloro che non trovavano un funerale, perché poveri o perché vittime di epidemie e alluvioni, sia accompagnando i condannati al patibolo».
A proposito di questi ultimi lei parla di una spettacolarizzazione della morte.
«Il corpo del suppliziato veniva teatralizzato. Spettacolarizzare le esecuzioni dei condannati a morte era tra i riti più noti delle città moderne: si seguivano precise liturgie e regolamenti. Era come interpretare un copione a uso della folla che si assembrava sulla piazza».
Le confraternite che ruolo avevano?
«In un certo senso anch’esse erano parte vitale della scena. Ma il loro compito consisteva nel portare il condannato al pentimento e accompagnarlo al trapasso. Il loro potere crebbe talmente tanto da ottenere la possibilità, nella festa del loro patrono, di liberare un condannato alla pena capitale».
Quante erano queste confraternite?
«Solo a Roma, più di una quindicina. Avevano un potere spirituale ed economico non indifferente. Costruivano chiese nel nome del loro santo. Vi aderivano magistrati, aristocratici, borghesi, si avvalevano di grandi artisti per decorare le loro chiese, come nel caso di Raffaello, confratello dei Piceni. Il loro potere crebbe e contrastò quello delle diocesi».
Quando declinò?
«In coincidenza con la fine della società pontificia. Nella seconda metà dell’Ottocento le confraternite tornarono nell’alveo devozionale perdendo in gran parte la loro efficacia sociale».
Lei ha affrontato questi temi non solo da studioso ma da sacerdote. Come è nata la vocazione?
«Non ci sono state crisi adolescenziali. Tutto avvenne con semplicità. La data esatta fu il 1955, chiesi di andare a studiare in seminario. Mio padre, contadino, mi domandò perché il seminario. Mi voglio fare prete, risposi».
Come reagì?
«Con stupore, all’inizio. Ma poi accolse quel desiderio sincero. In fondo eravamo una famiglia religiosa. Le mie domeniche da bambino le trascorrevo osservando la gente che partecipava festosamente al rito della messa. E poi cresceva in me la gioia di confondermi con quel popolo minuto che uscendo dalla chiesa si intratteneva sulla piazza. Quella visione mi fece pensare al significato di una società solidale, dove le ingiustizie si contrastano e non si rimuovono. Diventare prete volle dire proprio questo: far parte di una società così concepita».
È stato un apprendistato duro?
«No, oltretutto avevo uno zio arciprete. Bravissimo predicatore. Mi portava con sé nei suoi giri tra le campagne del basso Lazio, sono nato vicino a Frosinone. Ricordo noi due su una vecchia automobile tra le strade polverose e nei viottoli. È arrivato l’arciprete, gridavano i bambini. Avevo 12 anni e il mio compito era di occuparmi dei filmini che proiettavamo a queste famiglie, felici di poter staccare dalla fatica del lavoro. Lo zio dava lezione di catechismo e i filmati che trasmettevo raccontavano favole e piccole storie edificanti».
Evoca un mondo scomparso.
«Alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia contadina conservò ancora per poco la forza della coesione, del sentirsi comunità. E credo di aver appreso da quella esperienza che la teologia senza la vita vissuta è poco più di niente».
Come è stata la sua vita da prete?
«Sono stato ordinato prete nel 1970. Vice parroco a Casal Palocco per quasi tre anni. Poi chiesi e ottenni di essere trasferito nelle vere periferie: Primavalle, Garbatella, Ostia nuova. Dagli inizi degli anni Ottanta sono diventato parroco di Santa Maria in Trastevere. Il cardinal Martini mi chiamò per collaborare con la Comunità di Sant’Egidio. Nel 2000 sono stato eletto vescovo di Terni-Narni-Amelia».
L’esperienza nelle periferie come è stata?
«Per me fu un lavoro duro ma fondamentale se si vuole pensare in termini di difesa dei più deboli. E non c’è dubbio che in quelle realtà la sofferenza, le privazioni, le ingiustizie hanno lasciato un segno troppo profondo perché non se ne vedesse il disagio, anche estremo, che provocavano. La chiesa, più o meno, è riuscita a fare il proprio lavoro. Quello che non ho mai capito è perché la sinistra abbia abbandonato quei luoghi, assecondando più l’ideologia individualistica che il bisogno collettivo della gente».
Non si è dato una spiegazione?
«A volte penso che la sinistra abbia rinunciato alla parola "radicamento" che poi vuol dire radici, origini, identità. Se non credi o credi meno in questi valori, come puoi pensare di ritrovarli o di riviverli in quelle realtà estreme e difficili? L’esperienza di Sant’Egidio e di altre comunità è stata fondamentale per provare a radicarci in quelle realtà piuttosto che allontanarcene. Penso sia la forza del Vangelo che convince a stare con i più deboli».
Si tratta di uno schema che la Chiesa ha quasi sempre adottato nel corso dei secoli. Ma oggi non è che se la passi meglio della sinistra. Anzi, c’è un Papa che fa e dice cose molte delle quali vicine alla sinistra. Eppure le difficoltà sembrano insormontabili.
«La grande debolezza oggi risiede nell’accanimento con cui si difende il particolare. Si fa piccolo cabotaggio e si perseguono solo mediocri interessi di partito. Come dice papa Francesco: siamo tutti nella stessa barca. Ma ci stiamo dando i remi in testa invece di usarli per uscire dalla tempesta. Poi capisco perfettamente che l’individualismo sia uno dei frutti della secolarizzazione e che il Novecento con la sua storia progressiva di indebolimento religioso abbia spinto la fede sempre più nell’angolo della vita privata, facendole perdere quella rilevanza che aveva avuto in passato nelle società».
Con quali conseguenze?
«La principale è che forse l’uomo è più libero, ma certo più solo. L’affannosa corsa alla negazione di Dio, che c’è stata tra Ottocento e Novecento, si servì della convinzione che soltanto così si sarebbe potuta garantire la libertà dell’uomo. Lo schema era chiaro: solo se muore Dio l’uomo si potrà salvare. Il risultato è stato che alla morte di Dio è seguita quella dell’uomo. È la tragedia di cui parla il teologo Henri de Lubac».
Quali persone hanno contato nella sua formazione?
«Certamente Yves Congar che insieme a Jean Daniéleu e de Lubac diedero vita alla nuova teologia; il giovane Ratzinger, Paolo VI e il Cardinal Martini. L’esperienza del Concilio Vaticano II e il Sessantotto, che promosse tra l’altro una dimensione sociale del cristianesimo, hanno inciso fortemente su di me».
Come ha vissuto questa fase in cui proprio la dimensione sociale è stata messa a dura prova?
«Per un cristiano l’incontro con l’altro è la vita. Se non c’è, se è impedito, si rischia la sterilità del discorsi. Però ho obbedito alle regole imposte. In questi tempi ho ricominciato a riflettere sui Salmi, ho vissuto una rinnovata relazione con la scrittura di fronte al dramma che viviamo. Nell’insofferenza del momento ho cercato una luce che potesse aiutarmi a capire che cosa davvero stava accadendo».
Ha messo a dura prova il suo rapporto con Dio?
«In un certo senso è così. Ho riscoperto un senso della preghiera che non è semplice devozione ma confronto con Dio: tu, Dio, non puoi farci questo».
È il modello Giobbe.
«Riscoprire la preghiera come conflitto. Come imprecazione. Mi viene in mente il racconto di un amico ebreo. In una sinagoga di Gerusalemme c’era un ebreo piccolo di statura che pregava davanti al tabernacolo della Legge saltando e urlando con le mani al cielo. Il mio amico chiese al rabbino cosa stesse facendo: è arrabbiato con Dio, gli rispose».