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 2020  giugno 13 Sabato calendario

Fornasetti show

La luna ha bussato alle porte del Teatro Farnese e un popolo di creature notturne l’ha seguita fra gli spalti. Scimmie e giraffe, gatti e satiri, stelle, paggi e statue greche che, risvegliate dal marmo, mordono mele rosse ai margini della radura. È il pianeta Fornasetti. Il luogo dello stupore e dell’imprevisto. Dove tutto è sottosopra e succedono strane cose.
Stranger things. «Credo che Fornasetti quando era giovane – raccontava Ettore Sottsass – abbia avuto una visione allucinante. Deve aver visto tutto il mondo che saltava per aria, tutta la storia del mondo con tutti i depositi di figure e memorie». Da quella deflagrazione surreale è nato un nuovo ordine. Qui archeologia e costume, astronomia e danza, araldica, cucina e botanica si sono mescolate in un sogno eclettico. Nulla di caotico, al contrario misuratissimo. Perché Piero Fornasetti ( 1913- 1988) era un metodico. «Il mio solo segreto è il rigore. Sono un direttore d’orchestra che dirige tutti per ottenere la sinfonia». Oppure una trama da commedia dell’arte. Non a caso, si intitola Theatrum Mundi, antica allegoria di un mondo concepito come un effervescente spettacolo divino, la mostra che il complesso monumentale della Pilotta di Parma dedica (fino al 14 febbraio 2021) alla storia del maestro milanese e del suo celebre laboratorio nato sullo sfondo dell’Italia del ventennio e che rispose all’estetica del ritorno all’ordine imposto dal regime con un senso del classico antiretorico, venato di leggerezza e di ironia.
Definire Fornasetti è difficile. Decoratore è poco. Designer è asettico. Un artista, nato incisore ( stampava da sé le sue lastre) e pittore, cresciuto a Brera nell’aula di Gianfilippo Usellini – altro incantevole sognatore metafisico – passato poi alla stampa su tessuto, prima di inventarsi un metodo per trasferire i suoi disegni su ogni possibile oggetto di cui, diceva, «mi innamoro»; dalla sedia al fazzoletto. Con un’unica magnifica ossessione, che il figlio Barnaba, erede del suo talento e dell’atelier, riconosce nei «canoni della bellezza greca trasfigurati dal suo istinto combinatorio». Ovvero, dall’arte di equilibrare frammenti rubati a epoche e discipline diverse, arcaico e pop, architettura e musica. Non stupisce che i suoi mobili totali, le ceramiche, i giochi, i libri, le grafiche, le sculture abitino naturalmente gli spazi immensi e stratificati della Pilotta, palazzo enciclopedico di un ducato illuminato, «esperimento – spiega il direttore Simone Verde – di museologia cinquecentesca, ispirato ai Vaticani, in una vera capitale del classicismo». Fra passato e presente scatta il cortocircuito. E la sfida per il visitatore è cercare Fornasetti mimetizzato fra i tesori della Galleria Nazionale o della Biblioteca Palatina nella manica con gli arredi originali del francese Petitot. Sotto lo Spaccato del Teatro Farnese di Durelli spuntano i sottobicchieri con il prospetto del Ponte di Rialto e un portasigarette con la facciata di Palazzo Ducale, litografata su legno negli anni Cinquanta. Ordini di archi a tutto sesto copiati dal Teatro Bibiena di Mantova corrono sulle gambe dei tavoli di cristallo, accanto ai paraventi della ” città specchiata” che fonde il tema delle rovine di Piranesi coi capricci di gusto veneziano. Classico e onirico insieme. Una splendida follia. Con Gio Ponti, di cui fu amico e collaboratore negli anni di Domus, Fornasetti realizzò – oltre agli arredi famosi dell’Andrea Doria – trumeau stampati coi progetti di Palladio. «L’architettura non si muove, ma sta; anche se la sua liricità è nel correre delle linee» ripeteva Gio. E Piero, col suo gesto musicale, ne seguiva il flusso sulle ante degli armadi, gli schienali delle sedute a forma di capitello, i servizi da portata che si confondono ora con il Trionfo da tavola neoclassico dello scultore catalano Damià Campeny: Apollo e Diana, anfore e tripodi del 1806 si alternano alle idre, alle cetre, ai flauti di Fornasetti in una giostra del mito e del galateo. Mentre gli esemplari smaltati dei cani e dei gatti di porcellana scodinzolano alla corte di Maria Luigia d’Austria, moglie di Napoleone e duchessa di Parma, che posa nella quadreria in un marmo algido del Canova, sorge un pensiero spontaneo: se negli anni Cinquanta la ricerca di Fornasetti aveva già messo d’accordo arte e mercato in un’idea di design democratico, significa che il suo guizzo profetico anticipò la cultura quotidiana della factory statunitense. Dunque pop prima del pop.
La conferma viene guardando la luna che occhieggia dal palco del Teatro Farnese. Sulle gradinate, scrigno di legno concepito nel 1618 con stucchi dipinti e quinte mobili, sfilano allineati 600 piatti della collezione ispirata alla cantante e attrice Lina Cavalieri, diventata un’icona della maison nelle infinite variazioni che ne distinguono il volto secondo il principio dello stereotipo corrotto dalla vita vera. Ecco allora la bellezza che strizza un occhio, si nasconde dietro un ventaglio, si maschera, fa le smorfie, soffre e invecchia. Precorre le mille variazioni della Marilyn di Warhol. Ma con un segno rigoroso e un cuore visionario nel ritratto che, al posto di un occhio, ha una finestra spalancata. Sull’altrove o sullo spirito.