Robinson, 13 giugno 2020
Si fa presto a dire “macchie”
Un giorno di tre milioni di anni fa un australopiteco trovò nella valle Makapan, in Sudafrica, una località non lontano da Pretoria, un ciottolo di diaspro. Guardò il sasso, gli piacque, lo raccolse e lo portò con sé nella caverna. Nell’anno 1925 dell’era cristiana questa pietra fu ritrovata in una grotta di Makapansgat. La sua forma ricorda vagamente un viso, con due segni superiori per gli occhi e appena sotto la bocca. Chi l’ha studiata ha appurato che la sua conformazione è naturale e non il risultato di una manipolazione. Per quanto non possiamo metterci nella testa dell’australopiteco per capire cosa abbia pensato davanti a quella pietra, non possiamo neppure escludere che il nostro remoto progenitore l’abbia raccolta in virtù della sua rassomiglianza. Secondo Adolfo Tura, studioso d’arte e autore di Breve storia delle macchie sui muri ( Johan & Levi), è probabile che fino al momento in cui l’australopiteco vide nel sasso una testa, la Terra fosse priva d’immagini. Questo remotissimo atto costituirebbe quello che Tura chiama” facoltà paranoica”, un’espressione coniata da Salvador Dalí, che indica la prerogativa di vedere volti e figure nelle nuvole, nelle radici degli alberi, nelle conformazioni rocciose. Si tratta di un’attitudine che è sempre appartenuta agli esseri umani, e forse anche ai primati. Amleto nel terzo atto, scena seconda, conversa con Polonio; gli indica in una nuvola la forma di un cammello, poi di donnola e infine di balena. Questa esperienza non accade solo a personaggi eccezionali come Max Ernst, di cui Tura ricorda una sorta d’allucinazione notturna davanti a un armadio di legno; capita a molti, a partire dai bambini, i più dotati di facoltà immaginative, con le cose che vedono o che disegnano. Leonardo da Vinci ne parla nel suo Trattato della pittura indicando appunto le macchie sui muri, nella cenere del fuoco, nelle nuvole e nel fango, «perché nelle cose confuse l’ingegno si desta a nove invenzioni». Il curioso e dottissimo libro di Tura si pone il problema di cosa significa vedere. Lo fa considerando due aspetti in apparenza marginali dell’atto stesso del vedere: la veggenza e l’antiveggenza. La veggenza sarebbe il vedere «in quello che c’è quello che non c’è». Bisogna sempre ricordarsi che la visione non è un fatto meramente fisiologico o cerebrale. Come scrive in Collezione di sabbia Italo Calvino, l’occhio non è altro che un prolungamento del nostro cervello che si sporge sino al confine del nostro corpo. Inoltre la visione è anche un fatto culturale e antropologico.
Ernst Gombrich, ricorda Tura, ci rammenta che il nostro modo di leggere le immagini condiziona il nostro modo di vedere il mondo. Cosa è dunque la” veggenza”? Una visione, si potrebbe dire, una virtù immaginativa, la stessa che un autore come Roger Caillois esercitò con le pietre e gli insetti, i racconti mitologici e l’arte della guerra. Vedere è sempre un fatto produttivo, se anche Ignazio di Loyola insegnava durante i suoi esercizi spirituali a immaginare quello che non c’è per maggior gloria di Dio. L’antiveggenza è il contrario di questo: si tratta di un vedere che non è un vedere. Tura ha esplorato gli interstizi della cultura visiva e dell’arte moderna munito di alcune riflessioni di Wittgenstein per mostrare che siano le consuetudini linguistiche a produrre la nostra visione del mondo. A queste conclusioni era arrivato, ricorda Tura, anche Carl Einstein, ebreo, inventore dell’arte africana, anarchico e combattente antifascista in Spagna, storico dell’arte, morto suicida per sfuggire ai nazisti. Nel 1926 in un suo libro dedicato all’arte del XX secolo appena iniziato scriveva che «la rigidità delle cose è l’effetto della consuetudine linguistica». Cosa è dunque l’antiveggenza? Il dominio del linguaggio che irrigidisce le cose, le fissa, quando invece tutto è fluttuante e cangiante: informe. Tura parla al riguardo di” paranoia della cultura”. Come si sfugge a questo dominio della visione? Attraverso la fantasia, l’immaginazione e soprattutto l’arte. L’autore cita Jean Dubuffet, i suoi Hourloupe, gli scarabocchi e disegni fatti in modo meccanico al telefono del 1966, poi trasformati in sculture. Guardando le opere di Dubuffet, ci si convince, scrive Tura, che sono un’immagine, ma solo per un istante. Non sono nate per essere immagini, ma lo diventano per un caso, come quella pietra raccolta dall’australopiteco vicino alla sua caverna. L’immagine in definitiva vive tra l’eccesso di senso e il suo contrario, la privazione di senso.