Robinson, 13 giugno 2020
L’ultima traduzione dell’Ulisse
Volete un’immagine del traduttore? È un go- between: un ruffiano. Uno che traffica con lingue diverse e nel traffico guadagna non tanto denaro, ma una dose consistente di piacere. E una, altrettanto ingente, di dispiacere. Perché chi traduce non può non conoscere lo scacco rispetto al sogno della perfetta equivalenza tra il testo originale e quello che, ospitandolo, lo trasforma e lo altera. Perché la traduzione, nel mentre avvicina, allontana, e ci affaccia sulla verità che niente combacia, su tutto piuttosto trionfa la non corrispondenza, la non coincidenza. Del resto, non è sempre così? Quello che ho detto, non è quello che volevo dire, né quello che sentivo… Così se il traduttore è per vocazione un pandaro, un paraninfo, lo è sì, ma di tipo sacro. Sacro e grottesco, perché afflitto, quasi sempre, dal sentimento del lutto: il lutto per le mille sfumature di senso che nel passaggio da una lingua all’altra non ha saputo rendere. Epperò, nel fallire c’è del godimento; prima di altri, Bataille insegna che nella jouissance di questo si tratta: di trafficare con il dolore, con la mancanza, con l’impotenza. Pensateci: come spiegare altrimenti chi volontariamente si rende schiavo di due lingue, e come un asino in mezzo ai suoni si lascia comandare da due padroni, prendendo sberle e calci da entrambi?
È così, va riconosciuto: quest’atto infame, e cioè senza fama né onori, né guadagno, ha un suo fascino losco, se studiosi, accademici, scrittori si sono negli anni addirittura cimentati con l’impresa delle imprese, e cioè tradurre Joyce. Il primo in Italia è Giulio de Angelis. Né scrittore, né accademico, ma appassionato joyciano, De Angelis si avvale di una squadra di valorosi aiutanti, da Cambon, a Izzo, a Melchiori; lavora per anni, e poi nel giugno del 1960 ci regala il suo artefatto, con la solenne dicitura «Unica traduzione integrale autorizzata». All’inizio del secondo millennio, grazie alla scadenza dei diritti d’autore, nel 2012 compaiono le eroiche imprese di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi per Newton Compton, e di Gianni Celati nel 2013 per Einaudi. I primi accademici, il secondo uno scrittore con all’attivo traduzioni che sono atti di devozione a specialissimi santi del suo personale pantheon. E ora ci giunge una quarta versione, questa di Mario Biondi per la Nave di Teseo, il quale vanta un curriculum fitto di traduzioni dall’inglese e dall’americano e una vocazione di scrittore. Se Gianni Celati confessa lo sgomento che prova a riscrivere lo scrittore che ama, e a ogni giro di frase si perde in ciò che non sa restituire, pur consegnandoci un frutto davvero degno di ammirazione; nel caso di Terrinoni e Bigazzi l’attitudine cambia: loro prendono piuttosto la posa concretamente fattiva di studiosi, che s’impegnano e ingegnano e godono del loro trionfo. Quanto a Mario Biondi, dichiara onestamente la passione, alla quale si sa non si comanda, che l’ha incatenato per vent’anni alla pagina joyciana. E anche nel suo caso il risultato è felice.
Dico “anche” perché tutte le prove traduttive di cui sopra sono, se non altro, ingegnosi veicoli per entrare dentro quella macchina creativa, che è il romanzo di Joyce. Chiedersi qual è la traduzione migliore, sarebbe domanda non solo impertinente, ma inutile. Semmai possiamo chiederci: qual è quella che mima con più estro il” genio” linguistico di Joyce? Perché qui non è questione di fedeltà: non si può essere fedeli a Joyce, si può solo giocare con lui. E non scoraggiarsi di fronte all’impossibile compito di ricreare la sua verve linguistica in italiano. Perché anche lingue affini, non giocano mai allo stesso modo. Insisto: non è certo un caso che Joyce non nasca in italiano, che l’italiano di suo non abbia partorito niente di simile all’Ulisse. Sì che qui il traduttore non deve mettere una parola al posto di un’altra, ma piuttosto compiere un’operazione di ingegneria genetica: far nascere in una lingua qualcosa che quella lingua di suo non partorisce.
Biondi si adatta al compito con estro e decisione. Fin dalla prima frase che in inglese suona: « Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on which a mirror and a razor lay crossed… He held the bowl aloft and intoned: Introibo ad altare Dei ». È il magnifico inizio che traduce la scena della rasatura di Buck Mulligan nel registro grottesco di una messa solenne, confermato dal latino. Biondi traduce: «Statuario, pingue, Buck Mulligan avanzò…». Non «Solenne e paffuto», come in De Angelis, né «Imponente e grassoccio» come in Celati, Biondi riprende l’avverbio Stately e lo trasforma nell’aggettivo statuario, e riporta plump a pingue – più vicino alla soluzione di Terrinoni e Bigazzi. Imponendo da subito il giusto registro di un gioco tra suono e senso che orchestra la musica propria della scrittura joyciana.