la Repubblica, 13 giugno 2020
A Milano per un esame fino a due mesi in più
La sanità italiana si avvia zoppicando a recuperare i milioni di visite ed esami rimasti indietro a causa del lockdown. E tra le regioni maggiormente in difficoltà spicca quella più colpita dal coronavirus. In Lombardia in certi ospedali l’attività specialistica non è ripartita e se lo ha fatto richiede ai malati anche due mesi in più di pazienza rispetto a prima. È il caso, ad esempio, di una colonscopia programmata (quindi da fare entro sei mesi). Mentre per una ecografia all’addome, a Milano bisogna aspettare fine luglio, cioè 45 giorni.
Sono almeno tre le categorie in cui raggruppare le regioni in questo momento e che descrivono una situazione in chiaroscuro. Ci sono quelle veloci, come la Toscana, l’Emilia Romagna, la Sicilia e pure la Campania, dove si riesce a dare risposta alle richieste dei cittadini nel giro di una o due settimane. Il tempo dirà se il successo è dovuto a una domanda ancora bassa o all’efficienza dei servizi sanitari. Poi ci sono quelle molto lente, che costringono i pazienti a mettersi l’animo in pace, come appunto la Lombardia. Infine un buon numero di realtà locali sono ferme e non danno appuntamenti. Riprovi più avanti, grazie.
Forse perché impegnate a recuperare le prestazioni prenotate prima del lockdown, certe regioni ancora non permettono a nuovi pazienti di mettersi in lista. Succede ad esempio in Piemonte, dove da dopodomani si potranno di nuovo fare le prenotazioni ma solo per alcune specialità, ma anche a Roma e in tutto il Lazio, dove si fissano solo visite ed esami considerati urgenti perché vanno fatti entro 72 ore. Stessa situazione anche in Liguria, dove le agende dei reparti sono bloccate, sempre salvo le urgenze, almeno fino al 22 giugno.
Che l’impatto del coronavirus sul resto dei cittadini bisognosi di prestazioni sanitarie sarebbe stato pesantissimo lo si sapeva. Prima sono saltati all’occhio i problemi delle chirurgie, che tra marzo e giugno hanno visto saltare qualcosa come mezzo milione di operazioni. Ora è la volta della specialistica, cioè appunto delle visite e degli esami, il settore nel quale di solito si osservano le liste di attesa più lunghe. Da tempo chi ha gestito il ministero ha tentato riforme e innovazioni per abbattere i tempi. In alcuni casi hanno pure funzionato, in altri meno. Adesso però ci si è messo uno stop obbligato del sistema. Tanto più significativo per le prestazioni non urgenti, che sono la maggior parte, e devono essere garantite entro 30 giorni (le visite) o 60 (gli esami).
Per avere un’idea dei numeri dei quali si parla, può bastare un dato secco: 100 milioni. Sono le tac, le risonanze, le ecografie e gli esami radiologici che fanno ogni anno gli italiani. Più o meno il 20% hanno a che fare con il pronto soccorso e il 10% con le persone ricoverate. Gli altri 70 milioni quindi sono per chi prende appuntamento. Quei 5,8 milioni di esami mensili sono saltati, salvo parte di quelli oncologici, per due mesi e cioè marzo e aprile. A maggio e giugno si stima che si sia lavorato la metà. Alla fine, si sarebbero persi oltre 17 milioni di esami. Il numero delle visite specialistiche è ancora superiore.
Adesso che il virus sta colpendo sempre meno, i cittadini ricominciano a farsi avanti per prenotare ma recuperare non è facile. Il perché lo spiega Vittorio Miele, presidente della Sirm, la società italiana di radiologia medica e interventistica: «Dobbiamo tenere conto delle regole per la prevenzione del contagio da coronavirus, quindi quelle basate sul distanziamento e la sanificazione. Seguirle richiede tempo e riduce la nostra produttività, nel senso che l’utilizzo delle apparecchiature non è massimo». Secondo Mele gli ospedali e i centri diagnostici di tutto il Paese «stanno cercando di recuperare le prenotazioni disdettate nel periodo del lockdown. Quest’anno bisognerà lavorare ancora di più nei mesi estivi, cioè quelli in cui di solito si osserva una riduzione delle richieste».
Spesso sono stati gli stessi cittadini a disdire gli appuntamenti. In certe zone del Paese c’è tuttora un certo timore ad entrare nelle strutture sanitarie. «Ma si sta ripartendo – osserva sempre Miele – Ormai chi ha davvero bisogno, magari perché ha una patologia oncologica o cardiovascolare importante, ha ripreso a prenotare come prima. Magari esitano un po’ e preferiscono non venire coloro che hanno problemi non così seri, che possono aspettare».