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 2020  giugno 13 Sabato calendario

L’ultima onda degli amici olandesi traditi dal surf

Inseguivano l’estate infinita, hanno raggiunto l’eternità. Erano cinque, come i pesci bianchi disegnati in loro ricordo sulle rocce; come le bottiglie di birra conficcate nella sabbia davanti al legno con la scritta “Rip, cuori selvaggi”. Nel linguaggio dei surfisti “Rip” significa: “Corrente forte”; ma in questo caso è letterale: “Riposate in pace”. I fiori sono innumerevoli e continuano ad arrivarne di freschi in sostituzione di quelli appassiti. Succede ogni giorno, soprattutto all’alba e al tramonto, i loro momenti. A venire in pellegrinaggio sulla costa del mare del Nord, a sei chilometri dall’Aja, davanti al villaggio di Scheveningen, sono i 55mila abitanti del luogo e l’intera comunità dei surfisti olandesi, che lì hanno la loro patria. La polizia non applica le norme sul divieto di assembramento, capisce l’eccezionalità della situazione, la commozione per i modi e i tempi. Li vede arrivare in silenzio, con il cappuccio della cerata o della felpa sollevato, scoprire il volto per rispetto, concedendosi al vento. Qualcuno prima di andarsene mormora il saluto d’ordinanza (”Aloha”), togliendo la valenza festosa. O magari no. Chi ha coraggio per affrontare le onde deve trovarlo anche per il break point, il punto in cui si infrangono. Metaforicamente: quello in cui la vita stessa si spezza e si ritorna da dove si era venuti. Certo, il tracciato del cuore di un surfista contempla sempre l’impennata dell’onda anomala. Più improbabile mettere in conto l’alga anomala, che ha ucciso i cinque olandesi seppellendoli sotto una coltre di schiuma.
È accaduto poco più di un mese fa, l’11 maggio. Le restrizioni dovute all’epidemia da coronavirus avevano reso a lungo irraggiungibile la spiaggia. Il surf è soltanto in apparenza uno sport solitario e privo di contatto. Prima dell’assolo ogni atleta è parte di una rock band in tournée, una piccola tribù con i propri riti: sveglia in camerate, tende o bivacchi sulla sabbia; appuntamento davanti a un pullmino sgargiante e scalcagnato; viaggio alla meta passando dalla musica al silenzio. In mare li vedi entrare a gruppi, con i loro schemi e gerarchie. Nell’acqua si cercano, si sentono. Anche nel momento di assoluta solitudine, dentro il tubo, avere un amico fuori, che controlla e se del caso interviene, è fondamentale. Così erano partiti in sei, per il primo decollo di primavera. Ne è tornato, a raccontare l’accaduto, uno soltanto. Gli altri cinque avevano tra i 22 e i 38 anni. Vivevano sulla costa per scelta. Uno, in un furgone parcheggiato accanto alla spiaggia. Erano esperti, qualcuno istruttore. Uno si dedicava ai bambini autistici. Due praticavano, anche, l’hockey. Si battevano per buone cause. Uno organizzava manifestazioni sportive raccogliendo fondi per la ricerca anticancro. Nel loro blog l’ultima annotazione è: “Si va! Non vedevamo l’ora”. Il surf è uno schizzo di adrenalina con una goccia di veleno. Che un gesto improbabile venga reso possibile non addomestica il rischio. Il flirt con la tragedia segue quelli durante le notti ai falò. Tutta la cinematografia del genere allud e a questo. Dietro le acrobazie di Un Mercoledì da leoni, Point break o Soul surfer, c’è sempre una sfida: a se stessi, a un altro, alla natura, ma soprattutto al filo che tiene a galla l’esistenza. Chi cavalca le onde giganti sa che una di 10 metri, se ti si chiude sopra, ti scaraventa addosso il peso di 410mila chilogrammi. Eppure va: a vedere se può farcela. Invoca perfino l’abbraccio di Big Mama, che aspetta oltre ogni limite, al di sopra dei 30 metri.
Sulla spiaggia olandese non c’erano pareti d’acqua, soltanto questo tappeto formato da un’alga chiamata phaeocystis globosa: una formazione quattro volte maggiore della più grande registrata negli ultimi dieci anni. Alimentata da un clima insolitamente temperato e dalla luce del sole. La lunga attesa ha aumentato il desiderio, annullato la cautela, respinto a riva il consiglio di spostarsi più in là. Sono usciti. Poi che cosa è successo? Lo spiega Alessandro Marcianò, surfista italiano salito su un edificio d’acqua di 18 piani a Nazarè, in Portogallo, da dove parla: «Le ho viste, quelle alghe. Formano delle bolle sul pelo dell’acqua. A volte piccole, altre più grandi, ma si legano insieme, non lasciano passare l’aria. Creano una coperta sulla superficie, alta un metro, anche un metro e mezzo. Chi viene sbalzato dalla tavola e finisce sott’acqua se la trova sopra, non riesce a perforarla. Tre quattro boccate, poi è la fine». Imprevedibile? Nella bibbia dei surfisti, Giorni selvaggi di William Finnegan, il rivolto di copertina dell’edizione italiana (66th & 2nd) comincia così: “Il surf è un’arte dai molti paradossi, in cui il desiderio di mostrarsi non è mai separato da quello di essere soli con le onde e sparire dietro un sipario di schiuma”.