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 2020  giugno 13 Sabato calendario

Intervista all’italianista Teodolinda Barolini

Figlia di Antonio, lo scrittore-poeta e pacifista vicentino che negli anni 50 emigrò negli Stati Uniti, a Syracuse, con la famiglia, Teodolinda Barolini è oggi, tra gli studiosi di Dante, una voce molto autorevole, i cui saggi sono tradotti in Italia, dove è socia dell’Accademia dei Lincei. Via Skype, la raggiungiamo in lockdown nella sua casa di campagna del New Jersey, in congedo dalla Columbia University, dove insegna da anni. 
Suo padre ha avuto un ruolo nella sua passione dantesca?
«Mio padre è morto nel ’71, quando io avevo 19 anni. Quello che mi rimane nella mente è che a 13 anni adoravo la poesia di Eliot The Lovesong of J. Alfred Prufrock. Ho trovato particolarmente affascinanti i sei versi italiani in epigrafe e ho chiesto a mio padre di chi fossero. Mi ha risposto, più o meno: “Sono di Dante, dall’Inferno”. In questo modo si può dire che il mio primo incontro con il sommo poeta è stato mediato da mio padre».
In un libro del 1992, «The Undivine Comedy», tradotto in italiano come «La Commedia senza Dio», lei ambisce a mostrare il primato della finzione letteraria sulla visione teologica?
«Il mio scopo è ricordare che il testo – e quindi la finzione letteraria che contiene – è tutto quello che possediamo. Non possediamo la visione teologica. O meglio: la possediamo solo nella veste linguistica che il poeta ha creato. E questo fatto ha delle necessarie implicazioni nell’interpretazione. La visione teologica è quindi un prodotto retorico. Scrivendo dell’eloquenza di san Paolo e del linguaggio figurato dei profeti biblici, già sant’Agostino dice che anche i santi e i profeti hanno bisogno di risorse stilistiche e retoriche».
Bisogna valutare il grado di «inganno»?
«Il linguaggio letterario ha una inevitabile carica di “frode”: può errare, può sedurre, può mentire. Questa problematica Dante la indaga nell’episodio dell’arrivo di Gerione (Inferno XVI), dove per la prima volta dà un nome al suo testo, “comedìa”. La frase dantesca per descrivere le visioni estatiche di Purgatorio XV è “non falsi errori”: cioè, la Commedia è un’opera che in quanto arte può essere errore, ma che in quanto verità profetica è non falsa».
A proposito dell’eterodossia di Dante, lei si è soffermata sugli aspetti meno tecnici. Ne viene fuori un’idea più morbida, ma forse più scandalosa per i contemporanei.
«Certo, al di là della dimensione dottrinale, le posizioni di Dante rientrano spesso in un quadro generale non normativo e anticonvenzionale ancora più scottante da un punto di vista culturale e sociale, perché non riguarda solo le posizioni dell’aristotelismo radicale sul piano strettamente filosofico, ma una prospettiva più ampia… Dante ha scombussolato le aspettative dei lettori del suo tempo, ma purtroppo per secoli il suo pensiero è stato normalizzato e anche obliterato».
Per esempio?
«La scelta di Virgilio come guida a noi appare scontata, invece al tempo di Dante era una scelta d’avanguardia, una scelta che anticipa l’umanesimo. In Inferno XI Dante dice che la struttura del suo aldilà deriva dall’Etica di Aristotele: un autore cristiano parla di un oltretomba cristiano ma basandosi su un filosofo pagano. Il tempo ha prosciugato ogni motivo di choc, per cui un’ideologia scomoda viene accettata o assorbita in modo da essere via via resa invisibile oppure tende a essere riconfigurata, per esempio attraverso l’allegoria, o ignorata».
Altri punti «scandalosi» della «Commedia»?
«La progressista trattazione della sodomia da parte di Dante è stata ignorata per sempre dal secolare commento e in pratica cancellata dal poema. Eppure Dante mette dei sodomiti tra i lussuriosi in Purgatorio, salvandoli. Dato che il sistema del Purgatorio si basa sui sette vizi capitali, Dante sta indicando che lo stesso impulso vizioso – lussuria – è responsabile per ogni tipo di atto peccaminoso erotico, normativo e no. Si tratta di un’idea ancora non del tutto assorbita dalla società umana».
Anche il limbo di Dante ha una configurazione eterodossa?
«I teologi collocavano nel limbo soltanto gli infanti non battezzati, a cui Dante nell’Inferno IV dedica non più di metà verso. E gli unici adulti mai presenti nel limbo canonico sono i patriarchi e le matriarche del mondo ebraico biblico vissuti prima di Cristo e salvati da Cristo. Nel limbo di Dante troviamo invece degli adulti pagani, miscredenti ma virtuosi. Il poeta salva di fatto alcune precise figure pagane, costruendo una propria teologia: è un canto di profondo multiculturalismo, con greci, romani e persino musulmani nati dopo la nascita di Cristo. Sono dannati, ma Dante conferisce loro il privilegio liminale riservato ai bambini non battezzati».
C’è anche una sfida al senso comune della giustizia?
«Nel Paradiso XIX Dante mette in dubbio il criterio per cui si condanna un uomo perfettamente virtuoso per il solo fatto di essere nato sulle rive dell’Indo dove nessuno parla, né legge, né scrive di Cristo. E si chiede: “Ov’è questa giustizia che ’l condanna? / Ov’è la colpa sua se el non crede?”. Sono domande notevoli, incise nel poema, che vanno celebrate e che aprono tutto un discorso che io in inglese chiamo “the cultural other”, l’altro culturale. Per tutti questi aspetti, sarebbe importante capire come Dante era visto dai suoi contemporanei: una cosa che potrebbe interessare i giovani italiani che leggono la Commedia. Mettendo le cose in una prospettiva non troppo azzardata ma letterale, si arriva a conclusioni inaspettate».
Si può dire che Dante lancia una provocazione esplicita ai codici culturali contemporanei?
«Il pensiero di Dante non è affatto iscritto negli stereotipi culturali del suo tempo. Se per esempio si confrontano le immagini violentissime dei lussuriosi dipinte da Giotto con il V dell’Inferno, si capisce che Dante si interessa alla psicologia del desiderio e poco alla “fornicazione” dei predicatori contemporanei. Bisogna storicizzare per capire quanto Dante sia divergente rispetto alla sua epoca. Per esempio, in Inferno XVII ci presenta solo figure di usurai cristiani andando contro il codice sociale e culturale che associava la pratica dell’usura agli ebrei: secondo l’iconografia vigente dell’arte contemporanea è l’ebreo che portava la borsa dei soldi, mentre Dante la fa portare ai cristiani. E poi rende onore a certi filosofi musulmani con lo stesso rispetto che mostra per i classici. Dante arriva a dichiarare che all’ultimo giudizio ci saranno Etiopi più vicini a Dio che certi cristiani…».
E nella sfera sessuale?
«Dante è capace di trattare la sessualità senza mai servirsi della tortura genitale che è tipica delle visioni e dell’arte trecentesca (il Giotto degli Scrovegni o il Giudizio universale di Taddeo di Bartolo). La tradizione visionaria serve a dimostrare quanto Dante invece desessualizzi la lussuria; già nell’Apocalisse di san Pietro, dunque nel II secolo, troviamo le donne appese dai loro capelli, come secoli dopo farà Giotto. E anche se li mette all’Inferno non sogna per gli omosessuali la sadica tortura inflitta al sodomita nell’affresco di Taddeo di Bartolo. Per non dire, ripeto, di quanto fosse anticonvenzionale l’inclusione dei sodomiti tra coloro che devono purgare la lussuria».
Nella lettura della «Commedia» secondo lei c’è un’inerzia dura a morire?
«Il tempo è un combattente molto feroce e quando c’è un testo vecchio di secoli, l’inerzia è una cosa difficile da vincere. Ho sempre cercato di far vedere quel che io penso che Dante abbia veramente detto e il suo spirito molto poco addomesticato».
Lei ha studiato le figure femminili in Dante. Per esempio, Francesca da Rimini.
«Il problema di fondo di Inferno V è la volontà: per Dante la forza dell’amore non può vincere sull’arbitrio, la ragione non può essere dominata dal desiderio. Ho scritto molto su Inferno V, e sono fiera di aver segnalato il brano dell’Etica Nicomachea in cui Aristotele spiega l’impulso irrazionale con l’esempio di una persona trascinata dal vento. Ho anche fatto un’indagine su Dante storico di Francesca, sottolineando come prima della Commedia non ci fosse nessun testo che tratti di lei. Una sola testimonianza si trova nel testamento di suo suocero, Malatesta da Verrucchio, primo signore di Rimini. È solo con la circolazione dell’Inferno che si comincia a conoscere il dramma di Francesca. Il fatto che Dante l’abbia condannata all’Inferno è molto meno significativo dell’averla salvata dall’oblio, dandole un nome, una voce e un profilo storico». 
È possibile una lettura gender del poema?
«Non solo della Commedia. Il mio discorso sul gender di Dante è che alla fine il poeta dà “agency” alle donne, che siano in Paradiso o all’Inferno. Questa prospettiva si vede già in una canzone morale, “Doglia mi reca ne lo core ardire”, in cui Dante si rivolge a un pubblico femminile per istruire le sue interlocutrici: questo può sembrarci molto paternalistico e un po’ antipatico, ma all’epoca era inusuale, tant’è vero che un contemporaneo di Dante, Cecco d’Ascoli, attacca con disprezzo il proposito dantesco che alle donne si possa insegnare ad agire moralmente. Usare una canzone morale come forma di educazione femminile è una cosa che Petrarca, decenni dopo, non avrebbe mai fatto. C’è un filone della tradizione, che va da Guittone d’Arezzo a Dante e al Boccaccio del Decameron, dove le donne invece possono essere istruite».
E gli stilnovisti dove li collochiamo?
«È l’altro filone, quello che dalla poesia cortese attraversa appunto lo stil nuovo (compreso il Dante giovanile) e passa per Petrarca, dove le donne rimangono figure silenziose e non sono interlocutrici in grado di essere ammaestrate. La poesia degli stilnovisti è cortesia teologizzata in cui la donna non ha mai voce. A un certo punto della mia vita ho capito che la poesia cortese, che da giovane amavo tanto, è una poesia conservatrice rispetto alle donne, mentre la poesia moralistica, che da giovane mi sembrava molto antipatica, è invece progressista. Ovviamente la storia che viene dopo è una storia petrarchesca».
Quali aspetti della personalità di Dante trova più affascinanti?
«Su tutto c’è il fatto che Dante è un uomo che vuole capire, come Ulisse. Mentre Virgilio nel II libro dell’Eneide squalifica Ulisse come fraudolento, Dante trova il lato positivo di Ulisse in Orazio e soprattutto in quella che Cicerone definisce “discendi cupiditas”. Il Convivio comincia con la frase di Aristotele: “Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”. Ecco, è la brama di sapere il vero motore di Dante e il suo grande fascino».
Come leggere Dante a scuola?
«Il modo più utile è prendere il testo alla lettera. Basterebbe far leggere ai ragazzi il racconto, avendo fiducia nella narratività della Commedia. Io mi dispero quando arrivo a Petrarca per far capire ai giovani quanto siano squisite quelle poesie, questo sì è un problema. Ma non ci si può disperare di fronte alla Commedia che è una grande macchina narrativa che trascina tutti con sé».
Com’è impostato il «commento baroliniano» della «Commedia» che troviamo online nel sito della Columbia University?
«È un commento che penso possa piacere ai giovani, che segue la storia, il corso della narrazione senza soffermarsi troppo sui problemi arcani e puntando sempre sulla capacità mimetica di Dante – sulla straordinaria impresa di creare una realtà virtuale. Non vado oltre le 5 mila parole per canto, offro un commento sintetico con parafrasi implicite senza essere troppo pedanti né troppo semplicisti. La sfida è quella di includere delle letture mie inedite e allo stesso tempo andare all’essenziale».
Come è stato accolto il primo Dantedì oltreoceano?
«Il 25 marzo scorso, nonostante la situazione terribile che già stavamo vivendo, ho ricevuto molti messaggi che mi auguravano un buon Dantedì. Era una luce in un momento oscuro. Trovo brillante il nome e la trovata del 25 marzo, capodanno del calendario fiorentino. Mi auguro che nelle prossime edizioni ci sia un coordinamento a livello scolastico».