Corriere della Sera, 13 giugno 2020
Cronaca del ritorno in Cina
La squadra d’accoglienza cinese è composta da doganieri, poliziotti, infermieri, personale impegnato in operazioni di incolonnamento degli stranieri verso isole di controllo sanitario, distribuzione di volantini con istruzioni, schedatura dei movimenti recenti e futuri. C’è uno sforzo di cortesia e calma, ma l’atmosfera è ansiogena quando si è attorniati da decine di volti indistinguibili sotto le tute bianche sigillate, visiere, occhialoni, mascherine, guanti, soprascarpe, gambali. Sono più numerosi di noi passeggeri, professionali e un po’ spettrali. L’avanguardia di operatori cinesi anti Covid-19 è salita sull’aereo italiano della compagnia Neos appena atterrato a Tianjin: primo volo con donne, uomini e bambini diretto dall’Italia alla Cina da quando è esplosa la pandemia, a fine gennaio. Spettrale Fiumicino in partenza giovedì, altrettanto deserto lo scalo di Tianjin ieri. Comunque: benvenuti in Cina. Anzi: «Benvenuti alla Cina», ci ha incoraggiato ad alta voce, con buona pronuncia, una delle addette ai controlli. E se lo era scritto a pennarello anche sulla tuta bianca.
Molta cortesia e molte precauzioni per evitare di importare contagi. La sessantina di italiani che sono potuti rientrare nella Repubblica popolare cinese hanno dovuto subito sottoporsi a tampone, hanno firmato documenti e impegni a seguire le regole di quarantena (pena fino a 3 anni per chi nascondesse sintomi o contatti pericolosi).
A Pechino per la prima volta da metà aprile sono stati individuati tre casi di contagio «autoctono» negli ultimi due giorni, e le autorità hanno sospeso il rientro in aula di 500 mila bambini delle elementari. Non c’è da stupirsi se ci sono controlli stretti sugli stranieri che arrivano da Paesi dove i contagi restano centinaia al giorno.
Ancora non si fanno atterrare a Pechino, questi voli speciali concordati per via politico-diplomatica: il nostro è stato spedito a Tianjin, circa 120 chilometri dalla capitale. Tampone anche prima di salire sul volo in Italia, con esito trasmesso via email in Cina, per avere il permesso di partire. Test ripetuto in aeroporto a Tianjin. Poi quarantena in un albergo scelto dalle autorità di questa città (a spese di chi arriva dall’estero, ma l’hotel è modesto e il prezzo ragionevole). Non è servito ricordare che l’ufficio del Corriere della Sera è a Pechino e promettere auto isolamento davanti alla scrivania.
Nella stanza abbiamo trovato una pila di bottigliette d’acqua, una mela, una pera; per pranzo e poi per cena un inserviente bardato in tuta e mascherina ha portato riso in bianco, verdure lesse, pesce lesso (non ci vogliono appesantire visto che per due settimane si deve restare confinati in 30 metri quadrati bagno incluso). Ci hanno dato due buste di mascherine, due dozzine di guanti, salviette disinfettanti. E fogli con le istruzioni. Ne citiamo qualcuna: «Faccia esercizio fisico in camera e si alzi presto perché tenersi in forma aiuta l’immunità; eviti contatti con chi ha febbre o tosse; eviti contatti con animali selvatici, non mangi animali selvatici».
Al decimo piano di un hotel sembra improbabile entrare in contatto con un animale, ma lo choc per il mercato della carne «strana» di Wuhan ha emozionato anche gli estensori dei proclami sanitari. Il volantino è scritto in mandarino, con traduzione in inglese e italiano. Nella versione italiana si chiede: «Nell’ultimi 14 giorni se ha toccato o mangiato gli animali servaggi?». Sì, servaggi con la erre, l’interprete deve aver studiato a Roma (e bisogna confessare che leggere quelle righe ha aperto la diga della nostalgia). Arrivederci al 26 giugno, in ufficio a Pechino, dopo 14 giorni di clausura, temperatura controllata due volte al dì, nuovo tampone prima della liberazione. Il termometro fornito nel kit della perfetta quarantena non funziona: hanno promesso di mandarne un altro questa mattina con la colazione.