Tuttolibri, 13 giugno 2020
Intervista a Diego De Silva
Diego De Silva non ha fatto la quarantena ma è stato «ai domiciliari». Non ha cantato sul balcone («manco se mi pagavano»), non ha fatto aperitivi su Zoom (solo «interventi richiesti»), si è un poco spostato tra Salerno e Roma («con una certificazione adeguata») perché sta lavorando a una serie tv del suo Malinconico. I due si somigliano perché di base sono entrambi avvocati poi uno è diventato scrittore e l’altro, a dispetto delle innumerevoli sfighe, un avvocato di grido e non solo «di gemito», almeno nel mondo dei libri in classifica e, a quanto appena appreso, presto pure della tv.
Il nuovo libro di Malinconico, il quinto - doveva uscire il 31 marzo e il 12 lei scrive su Twitter: "è una vita che la vita mi rimanda, ci vediamo in libreria il 29 aprile". Poi in effetti la vita l’ha rimandata ancora, al 3 giugno. Come l’ha presa?
«Un po’ me l’aspettavo, del resto c’erano priorità più pressanti. Ma adesso sarà la prima volta in vent’anni che un mio romanzo esce e non farò promozione. Mi spiace perché si va in giro per incontrare i lettori e farsi spiegare il libro da loro. Tu scrivi scrivi e alla fine diventi presbite, il lettore ci vede e ti dice "guarda che questa è una cazzata"».
Uno come Malinconico che ha pensato dell’hashtag #andràtuttobene? Ci credeva o da buon napoletano ha fatto gesti apotropaici?
«Non ci ha creduto neanche 20 secondi. E non è andato tutto bene perché questa idea che la tragedia ci faccia tirare fuori il meglio non è vera, perché un conto è rispondere tecnicamente alle avversità, un conto sul piano etico e psicologico. Uno stronzo è rimasto uno stronzo».
A vedere i collegamenti da casa siamo un popolo di lettori, tutti con libreria di sfondo. Lei cosa aveva?
«Pure io, ma non era scenografia perché ho tante pareti foderate di libri, ciascuna per casa editrice. Non metterei mai un Einaudi vicino a un Rizzoli. Una parete Einaudi, una solo Adelphi. Perché la casa editrice ha un concetto e una estetica che van rispettati. E le case editrici per collane, una per gli Struzzi, una per i Coralli, i Supercoralli, L’Arcipelago. Con Adelphi è più semplice perché c’è omogeneità nelle tinte tenui. Parete bellissima!».
Che cosa ha letto o riletto?
«All’inizio il gesto della lettura non era naturale. A noi scrittori veniva chiesto di invitare a leggere ma in realtà nella primissima fase c’era una certa angoscia e tutti un po’ prima di cena eravamo calamitati dai numeri. Poi non era facile ripulire la mente e predisporsi a un romanzo. Era più facile stare incollati agli schermi. Non avevo nemmeno voglia di ingozzarmi di libri profetici tipo Spillover, invece ho riletto - lo faccio spesso - il Giovane Holden perché è un libro che si autoaggiorna. Poi ho letto ma non finito Fine di Knausgård, autore che mi ha sempre attratto perché ha una sorta di perversione per la verità, una scrittura che non vede l’ora di disvelare tutto quello che ha tenuto nascosto per una vita. Volevo anche finire Sottomissione di Houellebecq che avevo lasciato a metà, e alla fine ho letto in maniera un po’ disordinata, il libro del mio amico Paolo Giordano sul contagio e Zadie Smith».
Il nuovo romanzo: a pag. 14 nomina il primo arredo Ikea, un’ossessione. Qui è la linea per gatti Lurvig, dal tiragraffi all’igloo. Lei cos’ha in casa di Ikea? La verità.
«La verità? Pochissimo. Il calzascarpe lungo e i dividimensola Bonde. La Billy non l’ho mai avuta e mi manca perché è come per un chitarrista non avere una Eko, costa poco ma è un must».
Questo è anche un libro sul rapporto genitori-figli, del figlio naturale Malinconico dice "non sono capace di educarlo e non me ne vergogno. Io non voglio educare nessuno". Non è proprio questo il problema, adulti che hanno abdicato al loro ruolo?
«È esattamente questo il problema e io mi ci identifico essendo padre. Mai detto fa’ così non fare così. Ma non perché sia distratto, perché l’idea di raddrizzare le gambe non mi convince. Le cose si imparano per imitazione e per seduzione. E poi la funzione genitoriale oggi è completamente cambiata. Uno come mio padre oggi non sopravvivrebbe una settimana. Mio padre tornava a casa la sera e stava sempre ‘ncazzato, non si sa perché. Che poi le generazioni hanno atteggiamenti modaioli, i padri dell’epoca stavano sempre incazzati e non ti potevi avvicinare. Figurati oggi…».
Nel romanzo c’e un altro padre, il sindaco, che ha una figlia che si prostituisce ed è veramente tremenda con lui. Ma a lei sembra stare simpatica... perché?
«Perché è una figlia intelligente che mette in discussione il padre dal punto di vista della coerenza e di un ruolo che trova falso. Il riscatto del padre infatti è quando lui per la prima volta nella sua vita prende le parti della figlia. È lì che diventiamo genitori, quando difendiamo. L’amore è difesa».
Parlando di un’udienza fra coniugi definisce la domanda di rito del giudice una "frase da pretacchione". Variante del "fratacchione" di De Luca?
«Vincenzo lo conosco bene e Salerno è la mia città, con lui l’ho vista cambiare e migliorare. Da vecchio comunista quando si è insediato sindaco ha cominciato la riqualificazione urbana partendo dalle periferie per spostarsi poi verso il centro. È un bluesman, ha un senso ritmico per il tempo la pausa l’espressione la mimica facciale prima di sparare la battuta. Le sue uscite hanno illuminato il grigiore della pandemia».
A proposito di battute, nei suoi dialoghi ce ne sono a raffica, anche se in questo libro si parla di malattia grave, di Malinconico e sua…
«Io quando mi sono ammalato - un linfoma scoperto nel 2018 - ho reagito esattamente come Malinconico: tu ti trovi senza sintomi da un giorno all’altro in un reparto oncologico e c’è questa sensazione di incredulità: "Che ci faccio qui?". E poi ti fai la domanda idiota ma plausibile "ma perché proprio a me?" e un secondo dopo "scusa ma perché a te no?". A me questa sequenza faceva ridere. Io pensavo di scrivere un altro libro ma siccome mi succedeva questo sdoppiamento - mentre camminavo in corsia avevo Malinconico nell’orecchio che mi faceva il grillo parlante, stronzo - allora ho detto ok il prossimo libro sarà questo».
"Vrenzola", tuppettiare, fravecatore, graffa... lei col napoletano fa una operazione di sdoganamento come Camilleri col siciliano?
«Con tutto il rispetto per il Maestro, questo scorticamento del dialetto è una cosa che ho cominciato a fare con Certi bambini; in più il napoletano è una lingua e ha una caratteristica, parla per allusioni corporee, esprime i sentimenti sempre attraverso una sintomatologia fisica e questo dà una sensazione materica al sentimento che è intraducibile. Io piego la lingua italiana a una esigenza più espressiva, dove la lingua si contorce su di sé e in un certo senso si sporca si proletarizza, però è più vera. Io questa cosa qui, siccome la uso, non la voglio perdere nel mio tentativo di fare letteratura».
Detto questo, vrenzola è...?
«È la cafona che si sposa al castello delle cerimonie, però qui chiedo la consulenza di mia figlia, grande esperta di neomelodici (e risponde la figlia, ndr): "un dono della natura, un portento un fenomeno che si esprime con tutta l’estetica che custodisce in corpo..."».
Le storpiature del nome della segretaria Addolorata: Inginocchiata Afflitta Affranta Avvilita Contrita Ustionata Fustigata Sconsolata...
«Malinconico dimentica i nomi. Li confonde. C’era un Roberto che chiamava Sergio, una Vitulia la chiamava Marosia. Perché ci sono dei tipi fisici che ti suggeriscono dei nomi e non altri. Succede anche a me e quando me lo fanno notare ci resto male: "Ma come, ho sempre creduto che tu fossi Antonio e mi dici che sei Sergio…" è terribile».
Sotto i ferri Malinconico dice che gli toccherà l’outlet dell’aldilà, è fissato con discount, sottomarche e marche tarocche, la felpa Adibas, le finte Crocs. Cos’è, frustrazione o snobismo?
«No snobismo no. La vittoria della sottomarca è una sorta di affermazione di quello strato della società che vorrebbe ma non può e che si è data una imitazione possibile. Come diceva Woody Allen la vita non imita l’arte, semmai imita la cattiva televisione».
Hanno ridato da poco il film su Felicia Impastato che lei ha sceneggiato e lo hanno visto in 5 milioni. È sorpreso?
«Impressionante… sì mi ha sorpreso molto perché è un lavoro fatto nel 2016 con il fratello di Peppino e Monica Zapelli che già aveva scritto I cento passi, e a distanza di quattro anni una risposta di pubblico così forte è importante, perché poi la figura di Felicia era semisconosciuta. Una donna che senza alcuna formazione culturale si ribella a un mondo che era il suo e dedica la vita a ristabilire la dignità della morte del figlio».
Questo è un libro "serio" anche se fa ridere, a cominciare dal titolo sui "valori che contano": che per capirli ci vuole una malattia o una figlia in un gran casino. Il coronavirus, su scala mondiale, farà capire i valori che contano?
«Se abbiamo bisogno di una pandemia o di "un guaio passato" - come diciamo dalle mie parti - per dare un po’ di valore alla vita, vuol dire che non capiamo la vita, detto questo non è che la vita si capisca. Però anche per non capire la vita ci sono occasioni migliori che un tumore o una pandemia per fare questa non scoperta».
L’avvocato ha anche un’altra cliente, una che vuol separarsi. A farle cambiare idea sarà l’espressione, buttata lì da Malinconico, "i titoli di coda della vita in comune". Sarebbe stato un bel titolo, no? Anche perché poco dopo scrive "un romanzo con un titolo così lo comprerei senza neanche leggere la quarta di copertina". E allora che è successo?
«Quando l’ho detto al mio agente che è Marco Vigevani - eravamo a cena - lui ha posato la forchetta e ha detto "C***, questo è il titolo del libro!". Alla fine però a me piaceva che questa restasse una specie di ridicola frase magica e poi se tu la senti - I titoli di coda della vita in comune - fa un effetto lirico un po’ nostalgico, mentre I valori che contano (avrei preferito non scoprirli) è molto più malinconico».