Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  giugno 13 Sabato calendario

Torna il romanzo marziano di Ray Bradbury

«Cosa ha fatto quest’uomo dell’Illinois (…) per riempirmi di orrore e solitudine con gli episodi di conquista di un altro pianeta?».
È Jorge Louis Borges a chiederselo, e l’uomo dell’Illinois di cui parla è Ray Bradbury. Può sembrare anomalo accostare i due personaggi, eppure è stato proprio Borges a scrivere il prologo alla traduzione latinoamericana di Cronache marziane, edito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1950. Ed è una domanda più che legittima quella di Borges: «cos’ha fatto?» Lo stesso Bradbury azzarda una risposta – nell’introduzione al libro – ironizzando sulla questione: «Non ditemi cosa sto facendo, non lo voglio sapere!». Sta citando a sua volta un uomo che difficilmente accostereste a lui: Federico Fellini. A dirla tutta, non è soltanto il distanziamento dal realismo ad accumunare i tre, quanto la ricerca formale di un linguaggio in grado di raccontare questo sovvertimento. Nonostante abbia mosso i primi passi nelle fanzine di genere (arrivando addirittura a crearne una lui a 18 anni, Futuria Fantasia, per ovviare a quell’antipatico problema dei rifiuti editoriali), Bradbury ha sempre cercato di prendere le distanze dalla fantascienza, non perché fosse un’etichetta sminuente, ma perché, al tempo, quello che ci si aspettava da un autore di fantascienza era una competenza di tipo tecnologico, la sudditanza dello stile alla creazione di un mondo scientificamente coerente. 
«Se fosse stato un libro di fantascienza applicata» scrive Bradbury a proposito di Cronache marziane, «sarebbe da tempo ridotto a un catorcio arrugginito. Ma visto che si tratta di una favola a sé, anche i più ostinati fisici del California Institute of Technology si sono rassegnati a respirare la fraudolenta atmosfera all’ossigeno che ho rilasciato su Marte», con buona pace di tutti i lettori puntigliosi che amano scovare le incongruenze nel cosiddetto worldbuilding. Per Bradbury quell’elemento di fraudolenza è fondamentale per far restare viva l’ispirazione, tanto da ammettere una componente truffaldina persino nella forma: un «libro di racconti che tenta di essere un romanzo». 
Esiste un’altra questione rispetto alla fantascienza: affinché possa sfondare il ghetto del genere e farsi letteraria, occorre che la critica ci intraveda un solido impianto allegorico, un’intrinseca vocazione pedagogica. 1984 di Orwell è un esempio lampante, ma venendo a tempi più recenti abbiamo Il racconto dell’ancella di Atwood. Allo stesso modo si è voluto trovare in Cronache marziane un sottotesto di critica sociale e politica: la colonizzazione di Marte come metafora della colonizzazione europea dell’America, lo sterminio dei marziani come il genocidio dei nativi americani. Sarà un caso che gli abitanti di Marte descritti da Bradbury abbiano la carnagione ramata come gli indiani? O che uno dei terrestri arrivati a colonizzare il pianeta citi le peripezie del pioniere Johnny Appleseed? No, non è un caso, ma non è nemmeno il punto. Sembra che si possano contemplare solo narrazioni oppositive: il mito della frontiera vs la critica al mito della frontiera; il sogno americano vs il lato oscuro del sogno americano. Probabilmente leggendo oggi Cronache marziane, con le sue torride estati e i mari prosciugati, potremmo anche scorgerci un antecedente di climate fiction. Più Bradbury rivendica il ruolo radicale della pura immaginazione fraudolenta, più si cerca di incasellare la sua opera in un apparato di distopia pedagogica. In uno dei vari racconti che compongono questo romanzo-arazzo, Usher II, il protagonista – chiamato Stendahl – si godrà la sua vendetta, servita freddissima, investendo i risparmi di una vita per farsi edificare una casa sul modello Usher, allestire una festa in maschera, uccidere gli invitati con sofisticati metodi di tortura ispirati a Poe e poi assistere da lontano alla distruzione dell’edificio. 
Stendahl, sulla Terra, era un collezionista di libri fantastici che sono stati dati alle fiamme dal governo per sposare le istanze del realismo. Su Marte diventa un criminale anarchico che sacrifica tutta la sua vita per un unico gesto dal sapore dadaista: far fuori la crème intellettuale del suo tempo («Così come avete annientato la festa di Halloween e imposto ai produttori cinematografici, se volevano continuare a lavorare, di girare soltanto remake infiniti di Ernest Hemingway. Oddio, non so quante volte ho visto rifare Per chi suona la campana!»). 
Ma nella sua splendida ambiguità, Bradbury è anche un estimatore del realismo. Cronache marziane non è ispirato alle opere fantastiche ammirate da Stendahl, ma a Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson, con «quella dozzina di personaggi che trascorrevano la loro esistenza tra verande in penombra e mansarde senza sole». Bradbury prende allora tutto l’immaginario iperrealista del Midwest da Grande Romanzo Americano (quello sì altamente colonizzante se ancora oggi ci sembra più seducente e letterario l’Ohio dell’Abruzzo) e lo trasporta su Marte. Ecco la sua intuizione: riattivare e decostruire al tempo stesso l’epica delle verandine. Fin dalle prime pagine abbiamo a che fare con una vecchia coppia marziana alle prese con la noia del matrimonio e del quotidiano, nello scenario fantasmatico di un pianeta vagamente depresso. 
La scrittura di Bradbury è densa, poetica ed elusiva, quasi a contaminare il realismo con l’estro della confusione. È difficile dire come sia fatto il suo Marte – mutano il clima, la geografia, gli spazi – tanto che a volte nel tradurlo mi sono sentita anch’io spaesata da quella rigorosa indefinitezza. Eppure, in fondo persino i famosi «canali» di Marte – presenti anche nelle Cronache – nascono da un equivoco di traduzione. È stato un italiano, Giovanni Schiaparelli, alla fine del XIX secolo a individuare col telescopio una rete di strutture lineari che si stendeva sulla superficie del pianeta e che ha chiamato «canali»; in inglese sono stati tradotti come «canals» invece che «channels» lasciando presupporre fossero di natura artificiale, quindi creati da una mente aliena. Oggi che un miliardario visionario come Musk può ipotizzare davvero la colonizzazione di Marte, l’opera di Bradbury acquista un ulteriore livello – la fantascienza si fa contingenza – ma il centro della sua poetica ne viene solo rafforzato: avremo bisogno un giorno di sentirci rassicurati dal Grande Romanzo Marziano, o potremo serenamente concederci di scrivere senza voler sapere cosa stiamo facendo?