Tuttolibri, 13 giugno 2020
Intervista a Joël Dicker
Manca solo quella stanza, la 622, nel Palace de Verbier, albergo lussuoso nel cuore delle Alpi svizzere. Ma perché? L’indagine su L’enigma della camera 622, il titolo dell’ultimo libro di Joël Dicker, uscito in Italia per La nave di Teseo, rappresenta il fil rouge di questo romanzo. La porta avanti uno scrittore, arrivato ignaro in quell’hotel, giusto per distrarsi (è stato lasciato da poco dalla fidanzata). Ma scopre che una quindicina d’anni prima nell’albergo e in quella camera (una direzione imbarazzata, per dimenticare, ha fatto fuori il numero 622) è avvenuto un omicidio, il cui autore mai è stato identificato. Era una notte di dicembre e al Palace si svolgeva l’annuale festa di un’importante banca d’affari svizzera. Lo scrittore, guarda caso, si chiama Joël e vive a Ginevra, proprio come Dicker. Da lì quello «vero» risponde in diretta su Zoom alle nostre domande.
La storia principale del libro s’intreccia con i suoi ricordi di Bernard de Fallois, mitico editore parigino, che lo scoprì e lo lanciò verso un successo planetario.
«Al momento della sua morte, nel gennaio 2018, ho avuto voglia di raccontare i nostri ricordi comuni, quei sei anni in cui abbiamo vissuto un’avventura folle, il successo dei miei romanzi, il mio incontro con lui. Mi sono detto: lo devo scrivere rapidamente, mentre i ricordi sono ancora freschi. Li ho messi su carta semplicemente per me stesso. Ma poi ho voluto condividerli con i lettori».
In che modo?
«Ho pensato d’inglobarli in un romanzo, per rendere omaggio a Bernard, attraverso quello che ci ha fatto incontrare: i romanzi, appunto».
Si scopre che la vostra amicizia non era cominciata nel migliore dei modi.
«Iniziò tutto molto male. Non voleva pubblicare il mio primo romanzo (Gli ultimi giorni dei miei padri), non gli piaceva. Tra me e lui c’era un gap generazionale: allora io avevo 26 anni, lui 86. Ma, alla fine, dopo aver detto di no, per una ragione che ancora oggi ignoro, accettò di pubblicarlo. E sei mesi dopo lesse La verità sul caso Harry Quebert e lì divenne un uomo diverso, più giovane. D’un tratto sviluppammo una relazione molto forte: eravamo due giovani sognatori».
Ma il Joël protagonista del libro è proprio lei, Dicker?
«Quando ai ricordi condivisi da me, Joël, con Bernard, ho iniziato ad aggiungere la fiction vera, ho deciso per coerenza che anche lo scrittore che fa l’indagine si sarebbe chiamato così. Mi ha divertito questo gioco di specchi, per mostrare che potere abbia il lettore di un romanzo».
In che senso?
«Il protagonista di La verità sul caso Harry Quebert si chiama Marcus Goldman e abita a New York. Ma i lettori mi dicevano: sei tu. Io negavo, ma loro non ci credevano. Mi sono detto: stavolta chiamerò il narratore Joël. Non sono io, ma in ogni caso saranno i lettori a decidere chi è veramente».
Veniamo al thriller che si sviluppa nel libro. Uno dei protagonisti è Macaire Ebezner. Chi è?
«Un banchiere, erede di una banca svizzera nelle mani della sua famiglia da più di 300 anni. La carica di presidente è passata sempre di padre in figlio. Ma il papà di Macaire è morto da poco e ha deciso che non sarà più così: dovrà essere nominato in base alle sue capacità. Macaire è il simbolo di chi viene segnato dal peso della famiglia. Dal giorno in cui è nato, ci si aspetta che diventi il presidente della banca, che si comporti in una certa maniera. Gli s’impedisce di avere la sua vita, di realizzare i suoi desideri, di sviluppare le proprie passioni. Questa eredità, invece di essere uno strumento per costruirsi, diventa un peso che ci portiamo sulle spalle e ci impedisce di progredire».
Si scopre che Macaire ha fatto un patto con il diavolo in nome dell’amore.
«Sì. Al di là delle apparenze, lui voleva solo essere amato dalla donna che amava e vivere felice con lei. In realtà non gliene importava niente di essere ricco o di diventare presidente della banca».
A contendergli quell’incarico è un altro personaggio chiave, Lev Levovitch.
«Il romanzo parla del peso della famiglia e della trasmissione. Ecco, Lev ha origini modestissime. E ha l’impressione che, per essere amato dalla donna che ama, debba diventare ricco e ammirato. Ma suo padre non guarda in modo positivo a questo figlio che vuole cambiare il proprio status sociale, lo trova un tradimento. Macaire e Lev sono entrambi destinati ad accedere alla presidenza della banca. Il primo è il figlio biologico del presidente. Ed è in quella posizione forse per le sue competenze, ma tutti credono che sia giustificata soltanto dal nome. Mentre di Lev, che è diventato una sorta di figlio spirituale del presidente, venendo dal niente, si vedono solo le qualità, perché ha dovuto lavorare duro per sfondare. Per entrambi esiste una forma d’ingiustizia, un’immagine falsata…».
Lev parla anche italiano…
«La madre è originaria di Trieste e lavora a Ginevra al consolato d’Italia. Lev ha il meglio degli italiani. È elegante, intelligente, educato, perfetto».
Dopo aver «girovagato» negli Stati Uniti nei suoi precedenti libri, stavolta una buona parte della storia si svolge a Ginevra, dove è nato e dove vive. Ci teneva a raccontare la sua città?
«Sì, molto, anche se agli inizi non è stato facile. Immaginare un romanzo negli Stati Uniti era più semplice, si poneva una distanza. Questa volta ho voluto raccontare i sentimenti che provo per Ginevra, una certa tenerezza. È una città fuori dal mondo: rimasta piccola, calma, come tutta la Svizzera. Siamo qui, nel cuore dell’Europa, ma al riparo di tanti problemi, come una piccola isola».
È vero che lei non fa mai uno schema preciso prima di scrivere? Neanche per questo romanzo?
«Soprattutto per L’enigma della camera 622! Se avessi fatto uno schema simile al risultato finale, non lo avrei mai scritto. Mi sarei detto: ci sono troppi colpi di scena, mi spingerò troppo lontano, non è possibile. Non disporre di uno schema mi dà una libertà incredibile. Mi permette di «passeggiare» nella storia come in una città che non si conosce, senza Google Maps. Poi, mano a mano che vado avanti a scrivere, ritorno indietro e mi assicuro che tutto funzioni, che il romanzo sia coerente. L’ultimo inizia con un assassinio in un albergo di lusso. Ho avuto voglia di un’atmosfera così, tipo Agatha Christie o Conan Doyle. Solo dopo mi sono chiesto, ma chi è il morto? All’inizio non ne avevo idea. E così ci si ritrova a scoprire l’identità della vittima solo alla metà del libro».
Lei è stato un appassionato lettore di romanzi fin da ragazzino. Quali sono i suoi scrittori di riferimento?
«Uno di quelli che mi ha dato la voglia di scrivere è Romain Gary. Mi ha segnato anche per l’uomo che è stato, con la sua vita da romanzo: pilota di guerra, diplomatico, scrittore. Mi ha ispirato pure la letteratura russa, in particolare Dostoevskij. Non capivo tutto, perché ero troppo giovane, ma nei suoi libri mi sembrava che avvenisse un’esplosione, sentivo gli odori, il caldo e il freddo, c’era qualcosa di molto forte. Poi, sono stato un appassionato di letteratura degli States, soprattutto di Philip Roth. Una parte della mia famiglia è americana e vi ho ritrovato un’America che conoscevo, quella dei miei cugini, contemporanei dello scrittore. Infine, un romanziere importante per me è lo svizzero Albert Cohen e il suo La bella del signore. Si sente la sua ispirazione nel mio ultimo libro.