La Stampa, 12 giugno 2020
Perissinotto fuori dal coro: «Insegnare online funziona»
In queste settimane di pandemia si sono levate molte voci in difesa dell’istruzione tradizionale e contro la didattica a distanza, fin dall’appello di Massimo Cacciari il 18 maggio. Scorrendo l’elenco dei firmatari di quel primo appello ho avuto la sensazione che quasi nessuno di loro avesse mai provato a utilizzare le tecnologie per supportare le proprie lezioni.
Faccio due premesse. Primo: i miei ragionamenti si concentrano sulla didattica universitaria e lascio a chi insegna nella scuola il giudizio su quanto essi possano adattarsi ad altre realtà formative. Secondo: la didattica a distanza può giovarsi di un gran numero di strumenti e la lezione via webcam è solo uno di quelli, ma poiché è stato il mezzo più adottato durante il lockdown mi concentrerò su di essa.
Da alcuni anni videoregistro le lezioni universitarie che tengo in aula e le metto a disposizione delle studentesse e degli studenti attraverso la piattaforma telematica di ateneo. Molti miei colleghi, in tutta Italia, inorridiscono di fronte a questa prospettiva e all’idea che la loro lezione sia fruibile oltre il «qui ed ora» dell’aula. E allora provo a spiegare perché ho videoregistrato le mie lezioni prima dell’emergenza Covid e perché continuerò a farlo anche durante e dopo l’emergenza. In altre parole proverò a spiegare perché, secondo me, opportunamente abbinata alla didattica tradizionale, la didattica a distanza è uno strumento di democratizzazione del sapere.
Ho diffuso online le mie lezioni perché sono stato uno studente lavoratore e perché una volta mi capitò di sostenere un esame con un illustre professore e di sentirmi porre una domanda la cui risposta non si trovava sui libri: «Questo argomento l’ho spiegato a lezione», mi disse. Io a lezione non ci potevo andare. Perché volevo provare a capire se la consapevolezza di essere «qui ed ora» e, contemporaneamente, in uno spazio virtuale e in un tempo indefinito mi avrebbe messo in imbarazzo e avrebbe modificato il mio modo un po’ teatrale (o forse giullaresco) di fare lezione. No, non è cambiato nulla. Ho fatto un patto con me stesso: qualsiasi strafalcione fosse uscito dalla mia bocca e fosse stato registrato avrebbe potuto essere usato contro di me. Proprio come accade quando rilasci un’intervista televisiva o quando parli a braccio a un convegno,.
Perché so che la lezione in aula è un momento unico e irripetibile di confronto con tutte le persone presenti, anche quelle sedute in fondo all’aula a 40 metri dalla cattedra, quelle che mi vedono ogni tanto seduto sul loro banco o si sorprendono quando fingo di rubare loro il quaderno per mettere in scena la situazione sociale che sto spiegando. Perché stare in aula non è rimanere barricati dietro la cattedra, altrimenti sarebbe difficile vedere le differenze con lo stare dietro una webcam. Ma so anche che poter vedere la lezione on line se si è stati assenti è sempre meglio di niente. E perché so che se hai un disturbo dell’apprendimento, poter rivederela lezione ti consente di perfezionare i tuoi appunti e di essere un po’ più «incluso». .
Perché so che dagli anni ’90, con l’avvento dei registratori tascabili, la lezione è entrata nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e che, a meno di requisire tutti i telefonini, non sarò in grado di vietare a chicchessia di registrare la mia lezione: se la registro e la pubblico io, almeno ho la certezza di far circolare la versione ufficiale. E continuerò a registrare le mie lezioni perché, se verranno confermate le norme sul distanziamento sociale che riducono a 1/4 la capienza delle aule e delle sale cinematografiche, nella mia città non c’è cinema o teatro che abbia 1600 posti e che possa così ospitare, in distanziamento, i miei 400 studenti. Perché non posso tollerare che uno studente di un’altra regione che abbia iniziato un percorso nella mia università sia costretto a interromperlo perché non può più pagarsi un appartamento in città.
Perché se uno studente abita a 50 km dall’università, l’abbonamento ferroviario per 10 mesi gli costa 832 euro, un tablet per seguire la lezione ne costa 120, il privilegio di poter stare in aula per apprendere e socializzare non ha prezzo (ma per molti potrebbe essere diventato un vero privilegio).
Certo, posso aspettarmi che il governo stanzi dei fondi per aiutare gli studenti e le studentesse, ma poiché le persone in cassa integrazione stanno ricevendo ora i soldi di marzo (i più fortunati) so che per l’erogazione di questi eventuali fondi esisterà un «frattempo» e in quel «frattempo» io fornirò delle lezioni registrate che sono un po’ come la cassa integrazione della didattica: non restituiscono il 100% però ti salvano. Non entro nel merito di eventuali obblighi di legge circa la didattica a distanza, io sento l’obbligo morale di farla. Come tutti gli imperativi morali, non aspira a diventare norma, né metro di giudizio per le scelte altrui, però è una cosa che si può condividere, proprio come altri hanno condiviso il loro malcontento.