Avvenire, 12 giugno 2020
Peru, il problema delle baby domestiche
Adela ha 15 anni ma è già una “veterana”. Ha lasciato il suo villaggio sei anni fa e si è trasferita a Cuzco, arruolata da una “madrina”. Così si chiamano le famiglie di classe medio-alta che reclutano bimbe e adolescenti dalle comunità rurali come domestiche. In cambio di un «piccolo aiuto nelle faccende quotidiane», i datori di lavoro si impegnano a dare alle ragazzine un contributo economico e a mandarle a scuola. Adela di “madrine” ne ha girate parecchie e sa che quelle promesse difficilmente si realizzano. «Molte signore non volevano mandarmi a scuola, mi picchiavano, mi chiamavano: “Stupida india”. È stato solo grazie all’associazione Yanapanakusun se ho imparato a conoscere i miei diritti e a farli rispettare», racconta. Alla fine, all’inizio dell’anno, Adela aveva trovato una “buona” sistemazione. «Lavoravo otto ore invece delle solite undici. Per il resto potevo andare a scuola e fare i compiti e avevo perfino la domenica libera».
Poi è arrivato il Covid. Dal 16 marzo, il governo di Martín Vizcarra ha dichiarato lo stato di emergenza e una tempestiva quarantena. Prolungato cinque volte, il “lockdown” andrà avanti fino al 30 giugno, il più lungo al mondo. «I signori avevano una lavanderia ma hanno dovuto chiudere. Mi hanno detto che avrebbero ripreso a pagarmi quando anche loro avessero ripreso a guadagnare. Finora non ho visto un soldo. Non so me li daranno mai. Dicono che mi stanno sfamando e tenendo al sicuro, che dovrei essere loro grata. Ma ora, con la scuola chiusa, non ho più orari: lavoro sempre, anche la domenica. Di fare lezione a distanza non se ne parla, chi ce l’ha un pc...».
La situazione denunciata da Adela è comune a migliaia e migliaia di adolescenti. «La pandemia ha peggiorato ulteriormente le condizioni già difficili delle baby-domestiche. Alcune, per non perdere il lavoro, sono costrette ad accettare le condizioni imposte dalle famiglie. Ovvero lavorare come schiave in cambio di un pasto, a volte uno solo al giorno. Altre sono state licenziate da un giorno all’altro, spesso senza nemmeno ricevere il salario dovuto», afferma Angélica Yana, della casa rifugio di Yanapanakusun di Cuzco. Juanita, ad esempio, è dovuta tornare al villaggio a piedi. «Ho pregato la signora di darmi almeno i soldi del biglietto ma niente. Ha det- to che c’era la crisi e non poteva spendere anche per me. Che dovevo accontentarmi...». Il Perù è il Paese con maggior concentrazione di bimbi-lavoratori dell’America Latina: sono oltre 2 milioni, da loro dipende l’1 per cento del Pil. Almeno prima, una parte considerevole riusciva ad andare a scuola. Ora, con le classi sospese a causa del virus, quasi nessuno ha accesso alle lezioni virtuali.
Solo il 7 per cento della popolazione, come sottolinea Terre des hommes Italia che ha diversi progetti per l’istruzione in Perù, ha Internet sul telefonino. Non di certo i baby-lavorasfollati tori, che hanno semplicemente smesso di ricevere istruzione. Anche il resto dell’infanzia, però, è stata colpita dal «lockdown scolastico».
Più di due terzi dei piccoli delle comunità rurali sono tagliati fuori dalla didattica a distanza per mancanza di strumenti. L’88 per cento dei pochi partecipanti – meno del 27 per cento –, inoltre, non ha le competenze, non solo tecnologiche, per poter seguire. Di fronte a questa situazione, le associazioni Manthoc, Qasqo Maki, Kallpa e Yanapanakusun hanno lanciato un appello al governo per garantire istruzione e assistenza sanitaria ai bambini lavoratori: «Solo l’educazione può consentire loro di spezzare le catene dello sfruttamento. Non consentiamo che ne siano privati».