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 2020  giugno 10 Mercoledì calendario

Operai-acrobati a Notre-Dame

Christophe era qui, al sesto piano del palazzo della Diocesi parigina, davanti a Notre-Dame, anche quella sera di primavera, insolitamente calda, all’apparenza senza storia. «Vidi le fiamme uscire dal tetto, di fronte alle finestre dei nostri uffici – ricorda Christophe Rousselot -. L’impensabile si stava avverando. Mi sentii subito così piccolo dinanzi a un evento tanto grande». Era il 15 aprile 2019: un rogo assurdo e violento si prese il tetto della cattedrale. La guglia che lo sovrastava cadde giù, tra le fiamme, sulle volte medievali. Ora Rousselot, alla guida della Fondazione di Notre-Dame, che ha contribuito alla raccolta dei 920 milioni di euro già disponibili per i primi due anni di restauro, scruta con un misto di sollievo e preoccupazione i «cordisti» entrati in azione, i nuovi piccoli grandi eroi della «sua» cattedrale. Volteggiano da ieri all’interno dell’impalcatura metallica, che incombeva sul transetto di Notre-Dame già prima dell’incendio. Diventata un mostro d’acciaio instabile, pericolante, friabile.
Sì, è iniziata la fase più delicata del recupero dell’edificio, «solo dopo potremo dire che Notre-Dame è davvero salva», continua Rousselot. «Quell’impalcatura è una maledizione, una ragnatela che impedisce il restauro della cattedrale». 
Facciamo un passo indietro: era stata tirata su proprio per rimettere in sesto la guglia ottocentesca. Durante l’incendio non crollò (e meno male, avrebbe distrutto le volte, che portano già i segni della caduta della guglia, tre grossi buchi, ma sono rimaste in piedi). Le temperature altissime, comunque, hanno fuso in parte il metallo dei tubi, che si è tramutato in un insieme traballante sospeso in aria, con pochi e incerti appoggi. Da un anno Rousselot e tutti coloro che seguono il cantiere hanno solo un timore in testa, che quell’impalcatura maledetta crolli. Una nuova è stata costruita intorno per trattenere quella già esistente. Ma il problema è stato solo rinviato. E le intemperie di fine 2019 hanno fatto temere il peggio.
«Sono mesi che ci prepariamo – aggiunge Rousselot -. Sono stati messi in salvo e portati via i rosoni sottostanti, le garguglie, le statue. E i tecnici hanno studiato dove sezionare i tubi per estrarli senza che la struttura cada o per evitare effetti negativi sulla stabilità dell’edificio, tanto più che alcuni, a causa del calore, hanno formato un tutt’uno con la pietra». Molti calcoli, ma niente è sicuro, «l’operazione durerà almeno fino a metà settembre e dovremo restare con il fiato sospeso». Sono nelle mani di due squadre di «cordisti» scelti, cinque e cinque, che si alterneranno di continuo. Sono tecnici abituati a lavorare sui grattacieli di mezzo mondo (per di più, è una vera specialità francese). Ieri hanno iniziato a scendere giù in quel groviglio di tubi storti e deformati, chiusi in imbragature, fissate mediante corde a strutture metalliche. Muniti di seghe a sciabola, tagliano in punti precisi, anche sulla base delle indicazioni di altri tecnici che li seguono a distanza. È un enorme Mikado, dove togli un bastoncino e gli altri non devono crollare, anche perché qui i tubi distruggerebbero le volte.
Bisogna smaltire 250 tonnellate di acciaio, ossia 40mila tubi dell’impalcatura, in gran parte localizzati a quaranta metri d’altezza. Ogni volta che un pezzo è separato dall’ammasso, una gru lo estrae fuori. Si staglia gialla per più di ottanta metri, una delle più alte in attività oggi in un cantiere in Europa, con un cassone verde che scende e sale a raccogliere i «bastoncini» del Mikado. In alcuni casi, i più complessi, soprattutto per i tubi che si trovano troppo in alto, entrano in azione degli elevatori verticali, piattaforme di lavoro aeree che portano una gabbia con alcuni operai nella posizione giusta. È pure una corsa contro il tempo, perché Emmanuel Macron nell’aprile scorso ha ribadito la sua promessa, finire il restauro in cinque anni dopo il rogo. «Ci rimboccheremo le mani per rispettare l’impegno della scadenza del 2024», ha confermato pochi giorni fa il generale Jean-Louis Georgelin, 71 anni, ex capo di stato maggiore dell’esercito francese, messo dal presidente alla guida della task force che, con passo marziale, deve assicurare l’inaugurazione della nuova Notre-Dame il 15 aprile 2024. Il personaggio (brusco, già al centro di diverse polemiche) ostenta sicurezza. Rousselot stempera gli entusiasmi: «Per quella data sarà possibile celebrare delle messe all’interno della cattedrale, ma è impossibile finire tutto in cinque anni». Dopo la fase delicata appena iniziata, bisognerà estrarre i resti della guglia rimasti sopra le volte, altra operazione a rischio, e «solo dopo inizierà il restauro vero e proprio». Bisognerà scegliere un architetto per la nuova guglia (Macron aveva invocato un «gesto architettonico contemporaneo per quella struttura aggiunta solo fra il 1858 e il 1859 da Eugène Viollet-le-Duc, nel suo grande restauro ottocentesco di Notre-Dame) e ricostruire il tetto andato in fumo (era la mitica «foresta», così veniva chiamata, risaliva al Medioevo). Si potrà anche iniziare a intervenire all’interno, compromesso da pietre e pezzi di legno caduti dall’alto.
Da poco il sagrato della cattedrale è stato riaperto. I turisti, in questi tempi di coronavirus, non ci sono più. Ma arrivano i parigini. Martine ne è una doc. Ieri guardava verso l’alto, ai cordisti in volo sotto le nuvole che migravano rapide nel cielo. «Quest’impalcatura era lì per la guglia – dice – e poi ha rischiato di distruggere tutto. Ora non vedo l’ora che scompaia». Promette di ritornare durante l’estate. A controllare che tutto proceda al meglio, «perché Notre-Dame si deve salvare».