La Stampa, 10 giugno 2020
Le bugie dello stato su Regeni
Se corri all’indietro lungo l’arco del tempo che ci divide ormai dall’assassinio di Giulio Regeni e indaghi fra le voci di questi quattro anni non sai dire nulla che non sia una terribile parola: bugie. Le bugie di coloro che l’hanno ucciso, le bugie di coloro che per una fetida ragion di Stato nascondono i suoi assassini. Ma soprattutto le bugie di coloro che in Italia, alternandosi al governo, da quattro anni, giurano, pretendono, proclamano di volere la verità. Abbiamo sbagliato ad attendere, a sperare. L’accusa doveva esser formulata subito, urlata a voce alta e piena: non mentite con il dolore, non violate con la falsità la tenerezza indifesa di chi ha perso tutto. Bisogna recidere con le parole il bene dal male.
Guardo i genitori del ragazzo italiano affacciarsi, illusi e delusi, avvolti nel gomitolo della loro speranza, ad ogni anniversario, ad ogni incontro politico con gli egiziani, ad ogni nuovo annuncio di contratto miliardario (ora è la volta delle navi da guerra) e la bugia si ripete, si allunga: non faremo sconti, vogliono la verità. Già. La verità. Almeno quattro governi si sono "occupati" del caso Regeni.
Tutti hanno egualmente mentito. Mentito con la monotonia che è la cifra della miseria dei bugiardi: perché tutti hanno proclamato davanti a quelle due figure dolenti e indifese che non avevano dimenticato, stavano cercando senza sosta la verità. Facevano la ronda agli egiziani, perseveravano con pazienza, volevano scovarla la verità, farli confessare. Torna il conto? Non torna. Solo una somma di dilatorie furbizie.
Bisogna dirlo: nessuno di costoro ha mai cercato la verità che peraltro diceva di conoscere, ovvero il delitto di Stato. Perché nessuno dal primo giorno ha fatto l’unica cosa che si doveva fare. Se la giustizia e la morale hanno ancora un senso. Ovvero rompere le relazioni diplomatiche con gli assassini e i bugiardi del Cairo e portare davanti alla giustizia internazionale non solo lo "sbirrume" che ha ucciso materialmente il ragazzo, ma coloro che ne sono egualmente responsabili: il presidente padrone, il ministro degli Interni, il capo dei mukhabarat funebri assassini di regime. Perché questo è il diritto internazionale: lo Stato ha colpa per le turpitudini di coloro che agiscono comunque in suo nome.
Il resto è ridicola farsa: le richieste di inchieste furibonde, l’invio di magistrati che pietivano collaborazione, gli incontri tra diplomatici e ministri, le vacanze grottesche dell’ambasciatore.
Non si poteva fare questo? Bisognava chiamare i genitori e dir loro: rassegnatevi, l’Egitto è troppo grande e importante per noi, le conseguenze della rottura diplomatica sarebbero insopportabili per un piccolo Paese come il nostro che ha bisogno dei miliardi delle forniture militari, dei contratti petroliferi, della lotta al terrorismo. Rassegnatevi.
Questa era la verità. Giulio Regeni era passato senza accorgersene con un breve volo aereo dal mondo del diritto in cui era cresciuto al terribile mondo del non diritto a cui appartiene a pieno titolo l’Egitto: uno dei tanti Paesi del mondo dove fare una ricerca universitaria può costare la vita, dove i servizi di sicurezza possono prelevare la gente senza alcuna spiegazione, torturarla, ucciderla, gettarla in un fosso in una oscena irridente dichiarazione di colpa. Perché tanto nessuno chiederà loro conto. Sono il Potere.
Credo che con quella bugia inferta da quattro anni e con i baratti che la gonfiano continuamente (le fregate, i miliardi, la geopolitica) anche noi siamo scivolati lentamente in questo mondo del non diritto. Abbiamo le mani sporche.