la Repubblica, 10 giugno 2020
Biografia di Alessandro Rivera (direttore generale del Tesoro)
Alessandro Rivera è blindato dentro il ministero del Tesoro. Di solito è poco incline a cavalcare la scena pubblica, ma stavolta lo è ancora di meno. Cinquant’anni a novembre, aquilano, di famiglia di antica nobiltà e con solidi studi all’estero, è sostanzialmente un Draghi-boy: tecnocrate europeista che con SuperMario ha fatto i primi passi in Via Venti Settembre fino ad arrivare alla direzione generale nel maggio del 2018. I grillini non lo volevano, ma l’allora ministro Tria lo nominò lo stesso. Come direttore generale del Tesoro ha avuto più di una pratica rognosa tra le mani, a cominciare da quelle bancarie, ma pochi mesi dopo la sua nomina dovette subire il tritacarne del portavoce di Palazzo Chigi che lo invitava, rudemente, a cedere sul reddito di cittadinanza. Oggi Alessandro Rivera è di nuovo nel mirino dei Cinque Stelle soprattutto per l’adesione dell’Italia al Mes, ma con Conte e Gualtieri lavora fianco a fianco sul masterplan che sarà alla base del Piano nazionale per le riforme. Come è noto partecipa istituzionalmente all’Euro working group, il team di tecnici che mette a punto il lavoro per i ministri dell’Eurogruppo. In aprile, quando, l’Italia a sorpresa e tra le polemiche accettò che nel pacchetto di aiuto anti-Covid europeo, ci fosse anche la presenza del Mes con “condizionalità leggere” fu accusato di essersi sbilanciato troppo in avanti. Da allora le indicazioni politiche furono quelle di rendere assolutamente esplicita l’assenza di eventuali trappole: nacque così l’idea di un Mes condizionato alle spese sanitarie. Una battaglia lunga e dura, cui Rivera ha contribuito guidato dall’esperienza europea di Gualtieri, anche entrando in rotta di collisione con i suoi omologhi europei. Tuttavia, nonostante gli sforzi, l’Italia resta ancora alla finestra e i grillini non mancano di sottolineare il loro veto contro il Mes. Basterebbe per mettere il muso. L’altro elemento di frizione riguarda l’intera partita della iniezione di liquidità alle imprese con le garanzie del decreto “rilancio”. I circa 100 miliardi di garanzia, calcolati nel saldo netto da finanziare, non da spendere ma da tenere pronti alla bisogna, avrebbero destato qualche preoccupazione presso il Tesoro sempre prudente sulla linea del debito.
Come pure frizioni ci sono state sul decreto liquidità: Via Venti Settembre, tenendo conto anche del sistema bancario e di Bankitalia, era favorevole all’introduzione di una sorta di scudo fiscale che proteggesse i direttori di filiale dall’accusa di bancarotta di fronte alla concessione di un prestito con garanzia statale quasi obbligato. Si è arrivati solo ad una blanda autocertificazione, sempre per l’opposizione, grillina, del ministro della Giustizia Bonatede. Così la temperatura si è alzata.