Il Messaggero, 9 giugno 2020
Ilva di Stato? Un azzardo
Il principale impianto di produzione d’acciaio in Europa, una delle più grandi aziende italiane, certamente la più importante tra quelle del sud Italia. Al tempo stesso, croce e conforto di un territorio, quello di Taranto, che molto deve alla sua presenza ma tanto, troppo, ha anche dato in cambio, in termini di impatto ambientale e soprattutto di sicurezza e vite umane. È ArcelorMittal, meglio nota come Ilva, industria siderurgica presente su diversi siti del territorio (ad oggi, Genova e Novi Ligure) ma che viene di fatto soprattutto identificata con l’impianto di Taranto.
La storia di questa azienda siderurgica ha radici lontane. L’Ilva nasce nel 1905 ma è solo nel 1961 che essa confluisce nella neocreata Italsider, azienda pubblica controllata dall’Iri, e soprattutto si comincia a costruire l’impianto di Taranto, che sarà operativo a partire dal 1964 e ufficialmente inaugurato nel 1965. Naturalmente, come spesso accadeva in passato, in quegli anni le preoccupazioni ambientali e di salute pubblica sono ancora poco diffuse, perlomeno a livello politico. L’impianto si sviluppa e si ingrandisce, sempre più vicino alla città; le cui amministrazioni nulla o poco fanno per impedire che la città si espanda a sua volta sempre più prossima agli impianti. Che nel frattempo entrano in crisi per difficoltà di mercato. Siamo agli inizi degli anni ’80: sembra un’eternità, ma in effetti sono passati solo una ventina d’anni, nemmeno il tempo di una carriera lavorativa completa. E la promessa di una realtà che avrebbe dovuto garantire reddito, occupazione e una stabile prospettiva per il futuro di una città
vacilla per la prima volta.
LO SMEMBRAMENTO
Nel 1988 l’Italsider viene messa in liquidazione e piano piano smembrata. L’impianto di Taranto viene definitivamente privatizzato esattamente a trent’anni dalla nascita, nel 1995, e ceduto alla famiglia Riva, gli acciaieri lombardi. Sono anni in cui emerge anche la consapevolezza dei danni dell’attività siderurgica sui residenti della zona e in cui si richiede alla proprietà di adoperarsi per mettere in sicurezza l’impianto. Operazioni che certo non si realizzano in qualche mese, né in pochi anni: per riconvertire la produzione con forni elettrici se non addirittura per riconvertire l’intera area e fornire ad essa una vocazione diversa ci vorrebbero decenni, come insegnano anche le migliori esperienze europee, ad esempio quella tedesca della Ruhr o quella basca di Bilbao. E servirebbe quindi anche una certa continuità. Che però resta una chimera in ambito politico (dal 1995 ad oggi, vale a dire in venticinque anni, si sono succeduti ben quindici governi e sette legislature) e che, forse conseguentemente, lo diventa anche in ambito aziendale: la rottura del patto con la città, inizialmente per ragioni sanitarie, muove la magistratura locale che diventa un severo censore delle manchevolezze di cui l’azienda è accusata. Sicché a partire dal 2012 inizia una lunga fase di commissariamento dell’azienda che porta, cinque anni e cinque commissari dopo, alla cessione ad ArcelorMittal, azienda franco-indiana con sede in Lussemburgo, su cui vengo riposte le speranza di una nuova vita per l’impianto di Taranto. In realtà, l’esperienza di ArcelorMittal rischia di durare pochissimo e già dallo scorso autunno è fortemente a rischio.
Siamo solo all’inizio dell’ennesimo possibile disastro di politica industriale, le cui cause scatenanti sono principalmente due: da un lato, l’eliminazione dello scudo legale da parte del legislatore, che avrebbe dovuto proteggere i nuovi proprietari dai problemi penali precedenti il loro ingresso; dall’altra, la prospettiva di chiusura dell’Altoforno 2 da parte del Tribunale di Taranto per motivi sanitari. Le trattative e le assicurazioni proseguono ma, proprio in questi giorni, avviene l’ennesima rottura. Il piano industriale presentato da ArcelorMittal per il prossimo quinquennio, che tiene conto dell’effetto Covid, non piace al governo e non piace ai sindacati: troppi gli esuberi rispetto agli accordi presi pochi mesi fa. Il ministro Patuanelli prima sembra rievocare la possibilità di una gestione pubblica dell’azienda, poi smorza i toni, provando a ricucire con gli assegnatari dell’impianto. Una soluzione, tuttavia, sembra ancora lontana.
Nel rileggere la storia dell’Ilva balzano all’occhio soprattutto gli errori politici ma anche giuridici – e l’incapacità di gestione di un’azienda che, ancora oggi, ha enormi potenzialità economiche. Soprattutto, è un’azienda funzionante, che occupa 10.700 lavoratori, probabilmente altrettanti o quasi nell’indotto, e che fa parte di un settore, quello dell’industria siderurgica, tra i più importanti nel nostro paese: la produzione nazionale infatti è la seconda in Europa e la decima nel mondo; ha cominciato a recuperare dopo la crisi ma dovrà ora fare i conti con l’emergenza Covid (basti pensare all’impatto sull’automotive). Certo, non esistono soluzioni pronte e semplici. La nazionalizzazione diretta o sotto mentite spoglie attraverso la Cassa depositi e prestiti – è ovviamente sempre una scelta possibile, ma c’è da dubitare che sia quella migliore. Avrebbe oggi lo Stato le capacità manageriali, la continuità, le risorse per occuparsi direttamente di acciaio?
GLI ESUBERI E L’INPS
Per anni, il massimo contributo della politica industriale italiana è stato quello di usare l’Inps per gestire gli esuberi aziendali. E gli anni commissariali a Taranto sono stati anni in cui, di fatto, si è perso tempo e terreno, si sono evitati gli investimenti e le bonifiche necessari e in cui ci si è preparati per passare la palla a un nuovo proprietario. Del resto, non si può nemmeno negare che l’Italia sia il paese dei distretti industriali e non abbia mai davvero avuto la vocazione di paese industriale caratterizzato dalla grande industria privata. La presenza del settore pubblico è stata in passato preponderante. Ma, come si ricordava poco sopra, in un modo poco virtuoso: vale a dire, utilizzando il bilancio pubblico per drogare la bassa competitività e produttività, garantendo finanziamenti a fondo perduto ad aziende stracotte, e assorbendo il personale in eccesso.
Che il futuro di Taranto sia il gruppo ArcelorMittal o un altro soggetto, quindi, cambia in realtà poco: la visione e le prospettive sono più importanti dell’identità. Non bisogna temere le grandi aziende private, anche se straniere, che invece concorrono alla ricchezza del paese, così come ovviamente alla propria. Dovrà essere responsabilità dello Stato quella di presentarsi con un potere politico adeguato per farsi rispettare, per regolamentare l’attività economica e per garantire il raggiungimento di tutti i risultati attesi (economici, ambientali e sanitari) senza cambiare le regole a metà corsa. Sarebbe imperdonabile perdere anche questa opportunità.