Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2020
Ghiaccio più fragile, un problema per Putin
È il 12 maggio, nella residenza presidenziale di Novo-Ogariovo Igor Sechin accende il tablet: sa bene di avere tutta l’attenzione di Vladimir Putin. Del progetto che gli sta illustrando, Vostok Oil – Petrolio d’Oriente – avevano già parlato in febbraio: il piano più ambizioso dell’industria petrolifera moderna,aveva detto il presidente di Rosneft collegando alle relative risorse stimate – giacimenti per 5 miliardi di tonnellate di petrolio – la nascita di 15 cittadine industriali, un porto marittimo, due aerodromi, 800 km di oleodotti, 3.500 km di linee elettriche, una flotta di navi cisterna-rompighiaccio. E 100mila posti di lavoro: «In totale – aveva ipotizzato Sechin – la realizzazione del progetto consentirà di aumentare il Pil nazionale del 2% ogni anno».
Quel 2% di crescita annua in più Putin se lo fa ripetere, e chiede conferma anche del totale degli investimenti previsti («anche più di 10mila miliardi di rubli»,(129 miliardi di euro). Poi dà il via libera: «Igor Ivanovich, il progetto è davvero grosso e promettente. Prevede un aumento del Pil del Paese, e del traffico merci lungo la Via marittima del Nord, e ovviamente il rafforzamento delle posizioni russe nell’Artico. E dunque le auguro successo». Ma poi Putin aggiunge: «Tenga bene conto di tutto, come si deve».
Priorità nazionale
Sembra un presagio. La gigantesca macchia rossa che sta violando i fiumi e la tundra dell’Artico russo, combustibile diesel fuoriuscito il 29 maggio dal serbatoio di una centrale termoelettrica di Norilsk, scivola proprio verso la penisola di Taymyr, base del progetto Vostok Oil. Per anni le autorità russe hanno considerato il cambiamento climatico, così pronunciato in Siberia, come un’opportunità: il rialzo delle temperature facilita l’accesso alle enormi risorse contenute nel sottosuolo e sotto l’oceano, mentre si allenta la morsa del ghiaccio lungo i 5.600 km della Via marittima tra le isole di Novaja Zemlja e lo Stretto di Bering. Il Cremlino non ha dubbi: la base delle risorse che alimenteranno l’industrializzazione del Paese è qui, l’Artico (e la sua difesa) sono priorità nazionali. Non per niente è Rosatom, la compagnia di Stato per l’energia atomica, ad aver acquisito il controllo dello sviluppo, dei traffici, dei porti e delle infrastrutture. Accanto ai progetti LNG di Novatek nella penisola di Yamal, agli investimenti nel carbone o alla petrolchimica di Gazpromneft, Vostok Oil mira ancora più in alto. «In tanta pianificazione – osserva la Fondazione norvegese Bellona, impegnata nella lotta ai cambiamenti climatici – sono assenti le preoccupazioni per la fragilità ambientale dell’Artico».
Gli scienziati si augurano che Norilsk sia un campanello d’allarme ascoltato. «È vero, da un certo punto di vista il cambiamento climatico rende la Via marittima del Nord più aperta e accessibile, i trasporti meno costosi – spiega dall’Alaska il professor Vladimir Romanovsky, geofisico all’Università di Fairbanks, studioso del permafrost e delle sue variazioni -. Ma per tutto quanto è basato sulla terra, il riscaldamento non è positivo. Penso che avessero concluso di poter posare grandi infrastrutture ora che il terreno è ancora più o meno stabile, per tentare di mantenere tutto in funzione nel futuro».
Ghiaccio eterno?
Permafrost, nella definizione russa l’elemento della durata è ancora più marcato: vechnaja merzlota, ghiaccio eterno. Stabile, in teoria, per almeno due anni. E invece, avvertiva già nel 2017 un rapporto dell’Arctic Council, nell’Artico le temperature aumentano due volte più in fretta della media globale. Il cedimento del permafrost che ricopre il 65% del territorio russo,la maggior parte in Siberia, implica il rilascio nell’atmosfera del carico di carbonio intrappolato per secoli. Ma si riduce anche la capacità di tenuta del permafrost: l’altro grande rischio è l’erosione e il cedimento delle infrastrutture. Ed è questa, secondo i dirigenti di Norilsk Nickel (il primo produttore mondiale di nickel e palladio,cui fa capo la centrale termo-elettrica TEZ-3) la probabile causa del disastro della cisterna. In prospettiva, i grandi lavori in corso nell’Artico russo, resi possibili dal cambiamento climatico o volti a sfruttarlo, da quello stesso cambiamento vengono minacciati. E con loro le basi su cui poggia l’intera economia nazionale.
«Ancora non sappiamo le cause esatte di quanto è successo a Norilsk – riflette il professor Romanovsky – ma è possibile che abbiano a che fare con lo scioglimento del permafrost, come avevamo previsto». E come sanno bene gli abitanti di Norilsk, che da anni sono costretti a lasciare le proprie case pericolanti,cedimenti e fratture sono piuttosto comuni, e non solo nel Nord della Russia. «Non riscuotono attenzione perché sono di portata minore – dice Romanovsky -. Ma ci sono statistiche, non ufficiali, secondo cui il 95% dei cedimenti infrastrutturali nell’industria dell’oil & gas, nella Siberia nord-occidentale, è legato al degrado del permafrost. E non necessariamente scioglimento: anche solo il riscaldamento del terreno gelato altera la stabilità delle fondamenta di grandi infrastrutture».
Le palafitte di Norilsk
A Norilsk, i responsabili degli impianti parlano di cedimento dei piloni che reggevano il serbatoio del combustibile. Nelle regioni artiche, conferma il professor Romanovsky, le infrastrutture di norma vengono costruite su piloni, per prevenire un impatto diretto: in inverno l’aria fredda può circolare sotto la struttura e mantenere il permafrost in condizioni più o meno stabili. «In passato ha funzionato piuttosto bene, e funziona ancora: ma il clima più caldo indebolisce il permafrost, può succedere che i piloni affondino. È un processo irregolare, basta che si deformi una parte e alla fine la struttura può spaccarsi. In questo caso, sfortunatamente, è successo in una grossa cisterna, piena di diesel».
Lo stato d’emergenza dichiarato da Putin a Norilsk sblocca risorse e mezzi dello Stato.E tuttavia la mancanza di strade nella tundra, i fiumi troppo poco profondi per essere navigabili, il periodo del disgelo rendono ancora più complicati i tentativi dei soccorritori di contenere i danni e recuperare il combustibile, 21mila tonnellate finite nei corsi d’acqua e nel terreno. La zona contaminata è immensa, l’ecosistema avrà bisogno di decenni per guarire.
Monitorare il permafrost
E intanto Putin ha incaricato Rosprirodnadzor, l’organo responsabile per la tutela dell’ambiente, di effettuare verifiche accurate di tutte le installazioni ritenute a rischio. «Un esame dello stato delle infrastrutture su permafrost in Russia è molto utile – osserva Dmitry Streletskiy, professore associato di Geografia e Affari Internazionali alla George Washington University – e può evidenziare le regioni e le specifiche strutture che richiedono attenzione immediata. Ma fornirebbe solo una fotografia istantanea. Considerando il passo del cambiamento climatico, è importante capire che vicino alla superficie il permafrost è un ambiente dinamico,richiede un monitoraggio regolare nelle località del presente e futuro sviluppo industriale. Cosa al momento molto limitata. Ma per quanto possa apparire costoso, il monitoraggio del permafrost è centinaia di migliaia di volte più economico delle conseguenze dei rischi».
«Tecnicamente non è un’impresa così difficile da realizzare – spiega Vladimir Romanovsky -. In epoca sovietica, negli anni 70 e 80, nelle grandi città come Norilsk o Yakutsk il servizio speciale permafrost era routine. Il permafrost sotto le grandi strutture veniva monitorato semplicemente misurando la temperatura. Se necessario, si interveniva con soluzioni ingegneristiche per stabilizzare il permafrost. Le soluzioni ci sono, tutto dipende dai finanziamenti perché con fondi adeguati si può organizzare il monitoraggio con reti di sensori, in modo automatico. Certo è costoso: ma come ha detto Putin (al responsabile di Norilsk Nickel, Vladimir Potanin, ndr), sostituire a suo tempo una vecchia cisterna sarebbe costato meno». Mentre ora, come ha fatto intendere il presidente russo, spetterà a Norilsk Nickel farsi carico di tutte le spese. «Lo stesso è per il permafrost – conferma Romanovsky -. Finanziare il monitoraggio del permafrost costa molto meno che, dopo, pagare i danni».