La Stampa, 9 giugno 2020
Haftar, il generale perdente
È cosa prudente non fidarsi mai dei generali. Vi scarseggiano in tutte le epoche i cervelli fini, spesso sono ammalati di quello che nell’ottocento si chiamava «napoleonismo» e della inclinazione a ripetere, di guerra in guerra, di battaglia in battaglia, gli stessi errori. Alla grande svolta della ennesima guerra libica, si ha un bel colpo d’occhio, ora, sul carattere e sui limiti del maresciallo Kalifa Haftar. La sconfitta illimpidisce sempre le acque. Già, perché la sconfitta è l’elemento permanente della vita di Haftar: Haftar la carta sbagliata, il vinto, l’ingranaggio storto in qualsiasi congiura politica e militare, votato alla esecrazione di ripiegamenti e soldi gettati.
Ci si chiede come sia possibile che abbia saputo attirare, per lustri, la milionaria benevolenza di un bel numero di governi. L’elenco impressiona: Stati Uniti, Russia, Egitto, Emirati e Francia hanno tutti infilato nelle loro trame questo incapace dai baffi tinti, pensando di aver trovato in lui, nientemeno! che un Gheddafi di riserva, per di più senza le bizze e le lunatiche eccitazioni del Colonnello. Si sono fatti incantare dalla aria marziale; ma se guardi bene, dietro quello sguardo crispato si direbbe che ci sono crampi allo stomaco più che profondi pensieri strategici.
Nel 1987 il primo incauto fu lui, Gheddafi, il primo a credere alle sue moine e alle sue strategie infallibili. Che errore! Era uno specialista delle medaglie facili, ben educato alla pianta degli intrighi e del politicantismo, rigogliosa alla corte del profeta della Terza Via universale. Il vero campo di battaglia di Haftar: stratega consumato nell’adulazione delicata e nella abnegazione squisita al Capo, granatiere in quell’arte difficile che fa muovere convenientemente le ruote del rapporto umano con il satrapo, il padrone.
Il Colonnello voleva espandersi dal suo noioso deserto, in attesa di future incoronazioni d’Africa, si accontentava di altre pendici coperte selvagge di pietre, incancrenite dal sole, una provincia del Ciad. Preda facile da scardinare questa natura piena di muto furore, difesa da beduini in ciabatte, istupiditi dalla calura e dalla denutrizione. Si guarda attorno, il Colonnello, cerca l’uomo adatto per la blitzkrieg domestica. C’è Haftar: è un asso, a tavolino. Per di più gheddafissimo. Quello che l’incapace, fanfarone ma fascistissimo Rodolfo Graziani fu per Mussolini.
Della guerra vera, quella con la G maiuscola, i pidocchi, le spallate contro le mitragliatrici, i reticolati, gli uomini destinati a viver poco come le mosche d’autunno, il Maresciallo non sa nulla. Ma quello gli sembrava un conflitto da sbrigare come una operazione squadristica di proporzioni un po’ più vaste, senza rischi. Un acquazzone di medaglie. Gli affida, il Colonnello, una armata luccicante. Aerei carri armati rifornimenti a cinque stelle. Ha fatto acquisti da gran signore negli arsenali dei sovietici che svendono gli ultimi fondi di magazzino prima di dichiarare fallimento.
Haftar parte con la banda in testa e finisce a capofitto nella «guerra dei toyota». Sì, perché i predoni ciadiani hanno inventato i pick-up armati di mitragliere e cannoncini, appaiono pungono spariscono. Imprendibili. Feroci. A Wadi al Dum Haftar sciala la sua grande armata fermata da una cortina di piombo. I ciadiani lo fanno prigioniero. In fondo è stata la sua fortuna. Se fosse tornato a Tripoli, il colonnello, imbizzarrito dalla disfatta, aveva già pronta la forca, preceduta di torture e patimenti. Conosceva bene il copione da carnevale truculento, Haftar.
Ospitato profittevolmente nelle galere ciadiane getta sul tavolo un altro discutibile talento, il tradimento, il cambio di casacca. È allora che nasce il mito del generale convertito alla democrazia, disgustato dalle angherie del dittatore pazzo. Falso. La Cia sbircia alla ricerca di qualcuno che possa creare impicci alle ire paranoidi del bizzarro terzomondista di Tripoli. Al corroborante ripensamento lo convertono i dollari, il ritorno alla libertà e il comando di una scombinata banda di oppositori reclutata tra i prigionieri libici della guerra del Ciad. Una delle migliaia di invenzioni in cui l’Agenzia ha dilapidato tempo e soprattutto denaro. Missione: invadere la Libia. Eppure qualche dubbio sull’invincibilità del generale doveva pur essersi formato. Il democratico Ribelle non produce né invasioni né rivolte. Lo intanano confortevolmente per venti anni in Virginia, vicino al loro quartier generale. Non si sa mai, nelle guerre segrete così peccaminose, e criminose, tutto può tornare utile.
Dopo le primavere di Bengasi e Tripoli, da cui nascono non nuove vene di storia ma solo caos, gli americani lo riassumono. Di quello sfasciume non capiscono nulla, non hanno uomini idee progetti. Cercano il solito uomo forte, che metta ordine e tenga a bada gli islamisti. Insomma un nuovo Gheddafi ma che obbedisca solo a loro e possa stare nelle loro mani. Ecco il guaio: si cercano non dei puri, ma elementi che abbiano ambizione al potere e alla roba, disposti a tutto, ad andare anche al di là del bene e del male.
La Libia è diventato un posto di gangster, predoni e fanatici, si cerca di agguantare i petrodollari, i pozzi, gli oleodotti. Le anime fini, le ideologie, la politica impicciano. Putin verrà dopo. Haftar è all’inizio una avventata e nefasta scelta americana. Lui è ossessionato dalla «revanche», aspira alla Guida suprema, al balcone di Tripoli. Fa tutto in casa, con i quattro figli adattati a quadrunviri, e gerarchi presi a mazzo dalla sua tribù. Il destino di Gheddafi, rovinato proprio dal «tenere famiglia», non gli ha insegnato nulla.
La biografia di Haftar fa riflettere. Illustra l’approssimazione con cui vengono scelti gli alleati in luoghi del mondo dove si svolgono faccenduole complicate. Haftar è un avvertimento, offre un quadro notevole di una politica fallita. Da Thieu a Somoza uomini bacati scelgono sempre uomini bacati. C’è un’aria di rifritto. Le piccole volpi si accoppiano nei loro scombinati tranelli.
Per unificare la Libia Putin, al-Sisi, gli Emiri gli affidano di nuovo un gioiello, armi moderne aerei carri armati, mercenari russi e sudanesi. Lui che proclama di aver infranto il califfato della Sirte esibisce anche qualche reggimento di fanatici. Può pagare: ha il petrolio. Che storia è questa: tragica, bizzarra, grottesca. Nell’ambiente dei trafficanti Haftar ha fama di stolto, bersaglio perfetto per truffe e raggiri. Come racconta un recente rapporto dell’Onu: un gruppo di sedicenti mercenari gli vendono per decine di milioni elicotteri ultramoderni che si rivelano vecchie carrette. Li voleva usare per planare su Tripoli conquistata. C’è materiale per uno Svetonio.
Eppure Tripoli è lì, bisogna solo coglierla, difesa come è da milizie di banditi adibiti alle riverite clientele dal taglieggiamento e del saccheggio. Chi sta dietro il suo rivale di Tripoli, al-Sarraj? L’Onu. Un ente inutile. E l’Italia. Milionari ma di chiacchiere. Insomma nessuno. Tripoli è una grassa occasione. Lui promette ai suoi committenti tempi rapidi, guerre lampo. E inciampa questa volta nei turchi. Perché al-Sarraj di guerra capisce meno di lui, ma dal torbidume delle alleanze tira dentro la Libia la ottomana e nibelungica violenza di Erdogan. Inseguito dai droni di Ankara come da sirtiche Erinni, Haftar ripiega verso Sirte e la Cirenaica. Le sue tribù mugugnano. Deve stare in guardia: Putin e al Sisi possono essere più pericolosi di Gheddafi.