Avvenire, 9 giugno 2020
La rincorsa a Lsd e rivoluzione
«Il potere è allergico all’acido lisergico»”: negli anni della contestazione (anni Sessanta e Settanta) poteva capitare di imbattersi, sui muri di scuole e università, in slogan di questo tipo. Consumare sostanze stupefacenti era presentato come un atto eversivo, in termini sociali e culturali, rispetto a un ordine borghese rigido e autoritario; un modo, insomma, per sottrarsi alla repressione che le strutture del comando esercitavano sugli individui. Ma da dove nasceva quella mitologia (una mitologia – va subito detto – che avrebbe causato molte vittime)?
A ricostruire la storia degli stupefacenti (Lsd, ma non solo) e di un loro consumo sempre più di massa è assai utile il ponderoso e documentato saggio di Mario Iannaccone: Rivoluzione psichedelica. La Cia, gli hippy, gli psichiatri & la rivoluzione culturale degli anni Sessanta (Ares, pagine 616, euro 19,50), versione accresciuta e aggiornata di un fortunato saggio uscito da SugarCo nel 2008.L’autore parte da lontano: l’interesse per le droghe entra nella cultura occidentale alla fine del XVIII secolo, quando gli scrittori–viaggiatori europei riportano nei loro resoconti testimonianze dell’uso, da parte di diverse popolazioni esotiche (dalla Lapponia alla Siberia, fino all’India), di sostanze inebrianti, spesso nell’ambito di particolari riti mistico–religiosi. Nella prima metà dell’Ottocento viene introdotto in Francia l’uso dell’hascisc, dopo che un medico, Joseph Moreau de Tours, di ritorno da un viaggio in Egitto comincia a propugnarne l’uso a scopo terapeutico. Inoltre la cultura romantica promuove l’uscita dalla quotidianità per percorrere strade eccezionali, e gli stupefacenti possono costituirne uno dei mezzi privilegiati. Tra arte e scienza si crea così un’alleanza inedita. Accanto agli inebrianti e agli allucinogeni, ci sono anche gli stimolanti: Iannaccone ricorda come lo stesso Sigmund Freud ritenesse la cocaina un vero toccasana per molti disturbi nervosi, tra cui la schizofrenia.
Dopo essersi soffermato su un personaggio emblematico come lo scrittore inglese Aldous Huxley, che con il suo libro Le porte della percezione (1954), incentrato sul resoconto di alcune esperienze allucinatorie da lui stesso effettuate, assurgerà a icona del movimento controculturale degli anni Cinqunata e del successivo decennio, Iannaccone indaga i rapporti tra il mondo della ricerca medica, quello del pensiero filosofico, l’ambito della creatività artistica e persino certi settori della politica in relazione al tema della droga. L’autore mostra come, prima di diffondersi a un consumo di massa (con la conseguente emergenza sociale ed educativa che tutt’oggi viviamo), le droghe siano state studiate dagli scienziati degli istituti di ricerca strategica e persino dai servizi segreti di diversi Paesi (nei due blocchi contrapposti della guerra fredda), poiché venivano viste come potenziali alleate ai fini di una manipolazione delle coscienze indirizzata a peculiari finalità politiche. Del resto era stato già nel 1932 lo stesso Huxley, nel suo celebre romanzo distopico Il mondo nuovo, a immaginare uno Stato onnipotente che controllava la volontà dei cittadini attraverso l’uso di una specifica droga.Particolarmente interessante è il capitolo dedicato all’Italia, dove ancora negli anni Settanta del secolo scorso destra e sinistra si rinfacciavano reciprocamente la responsabilità della diffusione della droga presso i giovani: se per le testate conservatrici, dal “Tempo” al “Borghese”, si trattava di un’arma psicologica usata dai comunisti per aizzare la gioventù, “l’Unità” metteva in chiaro il punto di vista ufficiale del Pci: «Equiparare i drogati ai contestatori è truffa ideologica... i tossicomani non sono mai scesi in campo contro i piccoli e grandi poteri, contro i rapporti di produzione, sono solo degli autolesionisti, da sempre sconfitti perché hanno rifiutato la lotta». Insomma, per fare la rivoluzione era necessario essere lucidi: dunque evitare il consumo di droga.