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 2020  giugno 08 Lunedì calendario

Banche, il socio forte è passato di moda

L’ascesa di Leonardo Del Vecchio in Mediobanca, con quota virtuale al 20%, fa discutere anche perché è un unicum nella finanza, non solo italiana. E può rimettere in gioco il modello di “public company spuria” diffusosi nel decennio. Azionariati frammentati in cui prevalgono gli investitori istituzionali, tra poche spruzzate di quote statali, o di Fondazioni e Casse regionali. Di diverso solo un pugno, e piccolo, di banche familiari. Il caso Delfin, per la quota che prefigura un “controllo di fatto” in Piazzetta Cuccia – e, chissà, nella partecipata Generali – e per lo stile vagamente padronale dell’imprenditore, pur se risultato vincente nell’occhialeria mondiale, va contro gli usi. I motivi sono legati a due fattori: il consolidamento ormai spinto della finanza globale, che implica per i maggiori gruppi capitalizzazioni da decine di miliardi, dopo altrettanti sborsati dai soci per ripianarne decennali perdite su crediti; e la connessa, penetrante azione di vigilanza cui sottostanno dal 2008, specie in Europa.
Il Cadbury Report britannico nel 1991 stabilì i principi della buon governo societario: equità, obbligo di rendiconto, responsabilità, trasparenza. Sono universali, e tuttora validi. Tuttavia, la prassi di azionariati frammentati e finanziari è tanto diffusa che rinverdire il modello dell’imprenditore in banca non sarà facile per Mr.Luxottica: a oggi il “mercato” segue disorientato la scalata e non tifa per lui. Lo ha scritto con nettezza giorni fa Alberto Cordara, analista bancario di Bofa tra i più seguiti nella City: «L’annuncio ha innescato una reazione positiva in Borsa, ma nel lungo termine desta timori: il 20% garantisce di fatto una minoranza di blocco nell’assemblea straordinaria, e una possibile rappresentanza in cda per influenzare le strategie». A preoccupare Bofa sono anche le mire di Del Vecchio su Generali (di cui ha già un 5% suo): «Non capiamo come possano rivelarsi un elemento positivo per Mediobanca, né esiste un precedente di socio privato, che non è il fondatore, che prende una quota simile in una banca europea sana».
Banche public company
Le 11 maggiori banche in Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna sono quasi tutte public company. Solo Crédit Agricole ha un azionista maggioritario, le Casse regionali al 55,9%. Bnp Paribas ha un residuo 7,7% del governo belga, Commerzbank un 15,6% di Berlino, frutto di passati salvataggi. Poi c’è CaixaBank, con la Fondazione Caixa al 40%. Santander, SocGen, Bbva, Deutsche Bank, Hsbc, Lloyds, Barclays sono invece “all’americana”, in mano ai fondi: Blackrock, Norges, Vanguard, Dodge & Cox, Lyxor, Capital Research, e altri grandi gestori di risparmi. Per trovare banche di privati bisogna scendere tra le piccole (Mediobanca con 6 miliardi di capitalizzazione è una “media”: senza considerare l’affaccio su Trieste, che ne vale 22). Tra le 117 vigilate dalla Bce, solo cinque e minori hanno un socio non finanziario oltre il 10%. Per quattro di esse – le belghe Argenta e Degroof Petercam, la spagnola Bankinter, l’italiana Credem – sono le famiglie che 35 e più anni fa le aprirono. Per la portoghese Bcp, invece, il 27% di Fosun e il 19% di Sonangol sono frutto del salvataggio 2017.

La situazione in Italia
Anche in Italia le banche sono sempre meno “padronali”. In qualche caso sono rette da noccioli di soci storici, con quote minoritarie: altrimenti comanda “il mercato”. È l’effetto delle ricapitalizzazioni seguite dal 2008 alle perdite su crediti, che le Fondazioni bancarie solo in parte hanno versato. È anche il volere della legge, che dapprima ha imposto alle stesse Fondazioni di scendere nelle banche conferitarie, e qualche anno fa, ha riformato Popolari e Bcc cercando di favorirne l’accesso alla raccolta di capitali sul mercato. Come spesso, la realtà è più spuria di riforme e teorie. E oggi, benché il potere del management si sia ampliato, in varie banche il “manico” c’è eccome: soci stabili che si coordinano, in modo poco o più formale, nel supporto strategico. È il caso di Intesa Sanpaolo (cinque Fondazioni), Bper (Unipol e la Fondazione Sardegna), Ubi (due Fondazioni e imprenditori locali). E di Mediobanca, che ha ridotto il patto parasociale dal 50% del 1988 al 12,5% attuale, fonte della governance da decenni e fino al rinnovo di vertici di ottobre. L’analisi dei voti nelle assemblee è il test vero di chi “conta” negli istituti: e di cosa più gradirebbe. Nei rinnovi di cariche nel Ftse Mib, banche con azionariato disperso come Banco Bpm e Fineco hanno ottenuto il maggior supporto, anche tra gli istituzionali. Un assetto più diffuso, poi, ha permesso di selezionare gli amministratori in modi più innovativi e apprezzati dal mercato, per tipo e competenze: come visto in Unicredit, Intesa Sanpaolo, Fineco, Banco Bpm, Bper. Le banche più “public company” hanno inoltre mostrato più propensione al dialogo con gli stakeholder. Tutti assunti che affiorano da nomi e numeri, ma da non prendere per oro colato: quando il capitale si frammenta troppo capita che i manager assumano poteri poco bilanciati, come visto in Unicredit e Banco Bpm per anni (non parliamo delle banche dissestate, specie Popolari). Sempre sul lato critico, quando e se le cose si mettono male i fondi votano “con i piedi” e vendono, non avendo titolo né voglia d’impegnarsi nella gestione: e la crisi si avvita.
La normativa italiana consente a un azionista che investe oltre un miliardo di euro e va al 20% in un’azienda strategica, si chiami Del Vecchio o no, di non dire una parola sui suoi progetti a chicchessia. Né al management, né al “mercato”. Forse le cose cambieranno se il governo attiverà il nuovo Golden power. Fino a quando Delfin non avrà esplicitato i suoi orientamenti, fatto, come ha scritto Intermonte, «cruciale per gli investitori», sarà difficile scegliere quale modello preferisca la maggioranza dei soci per Mediobanca. L’unica strategia nota è quella dell’ad Alberto Nagel, che in 15 anni ha cercato certosinamente di spostare il baricentro da Generali a un gruppo multiforme, dove la maggior parte degli utili deriva dai conti del Leone e dal credito al consumo, ma anche ben posizionato nella banca d’investimento e nelle gestioni patrimoniali: dove a tendere vorrebbe crescere, smobilizzando per far cassa parte delle stesse azioni Generali.

La strategia di Del Vecchio
È un progetto che ha il limite di essere un po’ empirico, cucinato con gli ingredienti trovati in casa: ma ha ugualmente consentito utili stabili e un rendimento per l’azione, dal 2008, di circa il 220%, il doppio rispetto a Intesa Sanpaolo risultata la migliore tra le banche commerciali. A fronte di questo, Del Vecchio finora ha solo espresso preferenze per un rafforzamento dell’investment bank e del ruolo di holding su Trieste. Due istanze ad alta intensità di capitale e anche perciò ormai neglette da banchieri e investitori. C’è poi il fatto che alcune attività dell’imprenditore primo socio sono in conflitto di interesse con Mediobanca: la quota che detiene in proprio in Generali, ma anche la controllata immobiliare Covivio. Certo non sarebbe la prima, né unica volta che i conflitti allignano tra i soci di Mediobanca, o tra i loro interessi e quelli Trieste e i suoi soci. Conterà al caso la gestione ordinata di tali conflitti, che sotto la vigilanza della Bce finora ha funzionato (chiedere all’ex socio Unicredit). Ma prima di questo futuro, sarà l’assemblea Mediobanca di ottobre la vera prova d’amore tra Delfin, il mercato e il management.